La morte 28 anni fa. Da Londra alla serie Netflix: l’eredità di Diana riesplode oggi, tra capsule del passato e nuovi schermi.
La principessa nel tempo: una presenza che continua a incantare
A Londra, sotto il ritmo frenetico del cantiere del nuovo Children’s Cancer Centre del Great Ormond Street Hospital, è riemersa una capsula del tempo sepolta nel 1991 durante una cerimonia con Lady Diana, allora presidente onoraria dell’ospedale. Pensata per restare nascosta per secoli, è stata aperta anni prima del previsto a seguito dei lavori di ampliamento.
La scena ha avuto un effetto immediato: un salto emotivo agli anni Novanta, quando la figura di Diana riusciva a coniugare empatia e glamour, rompendo convenzioni con gesti che segnarono l’immaginario collettivo, dalla lotta alle mine antiuomo all’abbraccio ai malati di Aids. È in questo intreccio di umanità e iconicità che la sua eredità continua a parlare al presente.
Dentro la crudeltà del tempo
La scatola, foderata in piombo, custodiva oggetti-simbolo di una stagione che credevamo di aver archiviato: una foto di Diana, un passaporto europeo, una TV tascabile, una calcolatrice solare, monete, un quotidiano dell’epoca, perfino un CD pop. Qualcosa ha ceduto all’umidità, ma l’insieme è rimasto leggibile, come una didascalia al mondo che fu.
Tra chi ha seguito la rimozione c’è chi ha sorriso ritrovando quella TV portatile. “Erano oggetti costosi, allora”, ha ricordato Janet Holmes, storica dipendente dell’ospedale. Per il direttore esecutivo Jason Dawson l’esperienza è stata “toccante, quasi un filo che ci riannoda a ricordi piantati da un’altra generazione”.
Il nuovo centro oncologico, destinato a diventare un modello di innovazione pediatrica, proietta quell’eredità nel futuro: cura, ricerca, centralità del bambino. Un contrappunto concreto a un’icona che, per definizione, appartiene alla memoria.
L’eredità mediatica: tra piattaforme e tensioni familiari
Oggi l’eco di Diana risuona anche nello spazio più competitivo di tutti: lo schermo. Si moltiplicano le voci su un nuovo progetto documentario legato alla sua figura, con Prince Harry indicato come possibile promotore in vista del trentesimo anniversario. La logica è chiara: nessuna storia britannica muove l’attenzione globale quanto quella di Diana, e le piattaforme sono pronte a trasformare memoria in narrazione.
Ma ogni racconto ha un costo. L’ipotesi di un progetto guidato da Harry finirebbe per incrociare la sensibilità dell’erede al trono William, alimentando il pendolo tra fratelli divisi che il pubblico conosce fin troppo bene. Il rischio è che l’ennesima sovraesposizione trascini la storia della madre in una competizione di prospettive: chi racconta cosa, e a chi spetta l’ultima parola sulla sua eredità.
Passato riscoperto, futuro narrato
Il paradosso è tutto qui: una capsula di oggetti ci restituisce il profumo di un’epoca mentre una capsula narrativa prova a ordinarne il senso sullo schermo. Nel mezzo, la figura di Diana rimane un simbolo potentissimo: semplicità e privilegio, empatia e scandalo, vicinanza al popolo e distanza dalla corte. A ventotto anni dalla sua morte, il suo nome continua a essere la cruna dell’ago attraverso cui passa la percezione della monarchia e del nostro bisogno di storie condivise.