Bernardo Giorgio Mattarella: "La forza della Scuola Politica 'Vivere nella Comunità' sta nell'indipendenza"

- di: Redazione
 
Bernardo Giorgio Mattarella è professore ordinario di Diritto amministrativo presso il Dipartimento di giurisprudenza della Luiss Guido Carli. Direttore del Centro di ricerche sulle amministrazioni pubbliche “Vittorio Bachelet” della Luiss. Direttore del Master interuniversitario di diritto amministrativo e condirettore del master in Management e Politiche delle amministrazioni pubbliche della Luiss Guido Carli. Relatore in oltre 400 convegni scientifici, autore di circa 400 pubblicazioni scientifiche. È membro del Supervisory board della Scuola Politica “Vivere nella Comunità” e docente della medesima Scuola. Vicedirettore e direttore responsabile della Rivista trimestrale di diritto pubblico. Componente del Comitato scientifico delle seguenti riviste: Rivista italiana di diritto pubblico comunitario; Rivista della Corte dei conti; Rassegna giuridica dell’energia elettrica; www.Nelmerito.com; Gazzetta amministrativa della Repubblica italiana. È stato assistente di studio alla Corte costituzionale e capo ufficio legislativo del ministro dell’istruzione dell’università e della ricerca e del ministro della pubblica amministrazione. Nel 2008 ha vinto il Premio “Giuseppe Mantellini” per la Scienza di Stato, conferito dall’Accademia nazionale dei Lincei.Ha svolto numerosi studi all’estero.
Italia Informa gli ha rivolto alcune domande riguardo la Scuola Politica “Vivere nella Comunità”.


Prof. Mattarella, lei è uno dei membri fondatori del Supervisory board della Scuola Politica ‘Vivere nella Comunità’. Cosa significa per lei questo importante progetto, visto il successo che sta riscuotendo?
"Le rispondo prima da professore di diritto pubblico, studioso delle istituzioni, e poi da cittadino.
Da studioso, registro una grave carenza di preparazione del nostro personale politico, che ha varie cause, in gran parte legate all’evoluzione del sistema dei partiti. Certamente si sente l’assenza di strutture di formazione, che preparino all’assunzione di responsabilità politiche e diano informazioni importanti sulla società, sull’economia e sulle istituzioni. Per ragioni professionali, mi è capitato di conoscere e frequentare un gran numero di rappresentanti politici e di loro collaboratori: funzionari di partito o dei gruppi parlamentari, capi delle segreterie, addetti alle relazioni pubbliche o alla comunicazione politica. Nella maggior parte dei casi, ne ho apprezzato la dedizione, l’entusiasmo e anche l’onestà intellettuale, ma ho spesso toccato con mano la scarsa consapevolezza dei problemi istituzionali e l’inevitabile improvvisazione su temi importanti inerenti alla definizione e all’attuazione delle politiche pubbliche.
In altri tempi, un ruolo di preparazione del personale politico era svolto dalle strutture proprie o collegate ai partiti, che in gran parte sono scomparse. Questo vuoto è stato in piccola parte colmato da scuole e fondazioni che spesso fanno un ottimo lavoro, ma per lo più sono legate a partiti, correnti, movimenti o personaggi politici. La nostra Scuola, invece, è totalmente indipendente da qualsiasi forza politica.
Credo, quindi, che la Scuola possa dare un contributo utile, da una posizione disinteressata. Il numero degli allievi è piccolo, ma nel giro di pochi anni potrebbe essere formato un numero rilevante di soggetti, che potrebbero più consapevolmente svolgere attività nelle istituzioni politiche. D’altra parte, poche persone, ben selezionate e ben preparate, possono fare molto.
Da cittadino informato, poi, vedo con preoccupazione gli effetti dell’impreparazione del personale politico e del modo frettoloso con cui decisioni importanti vengono prese o non prese. Non ho mai avuto un particolare interesse per l’attività politica, ma sono convinto che sia la più alta forma di servizio pubblico. Non essendomi mai impegnato politicamente in prima persona, sono contento di poter dare un contributo alla formazione di chi vuole farlo.
Per tutte queste ragioni, credo che dobbiamo tutti essere grati al professor Pellegrino Capaldo per aver preso deciso di avviare e sostenere la Scuola Politica “Vivere nella Comunità”. Evidentemente anche lui ha maturato, sulla base di una grande esperienza professionale ad altissimi livelli, la piena consapevolezza dei pregi, dei difetti e delle esigenze di formazione della classe politica italiana.
Un apprezzamento, naturalmente, va rivolto anche al professor Paolo Boccardelli, che ha avviato rapidamente la Scuola sul binario giusto e la guida con grande efficienza".

Oggi la Scuola Politica di cui lei fa parte è al centro dell’attenzione poiché per la prima volta in Italia vi è un progetto formativo, simile negli obiettivi, cioè la creazione di una futura classe dirigente preparata, all’Ena francese. Quanto è importante dal suo punto di vista questo obiettivo?
"L’obiettivo di formare una classe dirigente preparata è certamente un obiettivo estremamente importante, ma non sono sicuro che l’Ena sia il modello a cui fare riferimento.
A me sembra che il modello francese abbia un grande pregio e un grande difetto. Il pregio è una classe dirigente di livello molto elevato, che risulta da una selezione rigorosa e da un percorso formativo efficiente ed è in grado di operare sia nel settore pubblico, sia in quello privato e di assumere, nel settore pubblico, sia cariche politiche sia incarichi amministrativi. Questa classe dirigente costituisce l’élite della burocrazia statale e, quindi, assicura ai ministeri personale di ruolo di grande preparazione, in grado di ricoprirne i vertici. Il difetto è che si tratta di un sistema molto elitario, in gran parte riservato agli allievi di un’unica università parigina, al quale è molto difficile accedere per chi abbia fatto studi in periferia.
Da noi la situazione è diversa. Abbiamo delle élites amministrative, ma sono al di fuori dell’amministrazione dello Stato: magistrati amministrativi e ordinari, avvocati dello Stato, consiglieri parlamentari, funzionari della Banca d’Italia. I dirigenti dei ministeri non ne fanno parte e raramente riescono ad arrivare ai vertici delle stesse amministrazioni statali, che devono quindi “importare” funzionari di vertice da quelle carriere. Non abbiamo il difetto del sistema francese, perché a queste carriere si può accede indipendentemente dalla propria estrazione sociale e da dove si siano svolti gli studi, e di fatto vi è una forte componente meridionale.
In questo modo riusciamo ad avere eccellenti funzionari ai vertici burocratici dei ministeri, ma anche il nostro sistema ha dei difetti: le amministrazioni pubbliche sono di per sé deboli; le carriere di élite che ho citato rischiano a volte di impoverirsi, perché molti dei loro esponenti assumono cariche nei vertici dei ministeri e delle regioni; nel complesso, c’è un eccesso di funzionari di vertice con una formazione esclusivamente giuridica.
Credo, quindi, che dobbiamo cercare di migliorare il nostro sistema senza replicare i difetti di quelli altrui. Da questo punto di vista, la nostra Scuola nazionale di amministrazione ha fatto grandi progressi.
Tutto questo, però, riguarda il personale amministrativo, quello destinato a ricoprire i vertici burocratici dei ministeri. Non riguarda, invece, il personale politico, per il quale rimane la grave carenza di cui parlavamo prima, e in vista del quale la nostra Scuola è stata costituita".

Oltre a essere membro del Supervisory board, lei è anche docente di questa Scuola Politica, insieme a grandi nomi come Sabino Cassese, Francesco Profumo, Carlo Messina, Marta Cartabia, Roberto Garofoli, Enrico Giovannini. Il mix di competenze pubblico e privato è la chiave per formare i vostri giovani?

"Sì, l’interdisciplinarietà mi sembra un carattere necessario per una scuola di formazione politica. Ai politici è richiesta una comprensione complessiva dei fenomeni, che vada al di là delle prospettive disciplinari. Non devono essere esperti dell’una o dell’altra disciplina, ma devono essere in grado di individuare gli esperti e di interloquire con loro. Devono anche sapere esporre compiutamente e comunicare efficacemente le proprie idee e i propri programmi.
È per questa ragione che i diversi temi, nei quali si articola il programma della nostra Scuola, vengono affrontati da prospettive diverse. Ci sono non solo esperti di diverse discipline, ma anche docenti che hanno avuto esperienze molto diverse, come studiosi e come operatori. Molti dei nostri docenti sono, allo stesso tempo, teorici e pratici, perché agli allievi bisogna esporre sia la teoria, sia la pratica.
Naturalmente, tutto questo si traduce innanzitutto in una compresenza di docenti provenienti dal settore pubblico e dal settore privato, dato che i politici hanno un fondamentale ruolo di cerniera tra le istituzioni pubbliche e il tessuto economico e sociale".

Lei è anche docente presso la Luiss e ha insegnato presso la Scuola superiore di pubblica amministrazione. Crede che per rilanciare il paese sia necessario aumentare la preparazione dei manager della PA o pensare ad una riforma globale della PA, rivedendo alcuni punti della legge Madia che lei ha seguito molto da vicino?
"La ringrazio per avere ricordato la mia esperienza alla SNA, che per me è stata importante: è lì che ho avuto il rapporto più intenso e più continuo con la dirigenza pubblica. Continuo a insegnarci occasionalmente e vedo che l’architettura e i contenuti dei corsi migliorano.
Alla sua domanda risponderei che le due cose – investire sulla preparazione dei manager pubblici e riformare la pubblica amministrazione – non sono incompatibili, anzi c’è una reciproca implicazione: le riforme non riescono senza che i dirigenti le comprendano e ne facciano propri gli obiettivi, quindi occorre fare molta formazione sulle riforme fatte e su quelle in corso; e, d’altra parte, i dirigenti pubblici non possono svolgere bene i loro compiti senza essere consapevoli del modo in cui l’amministrazione si evolve.
La mia esperienza di riformatore suggerisce che non bisogna puntare a un’unica, grande riforma della pubblica amministrazione, e illudersi che sia quella buona, bensì vedere le riforme amministrative come un continuo processo di adattamento delle funzioni, dell’organizzazione e delle procedure. Ogni grande organizzazione deve continuamente rimettersi in discussione e valutare l’adeguatezza dei propri obiettivi, dei propri assetti organizzativi e del proprio funzionamento: nel giro di qualche anno, questo processo fa cambiare volto alle società, alle associazioni, agli studi professionali. La pubblica amministrazione ha delle rigidità che le organizzazioni private non conoscono, ma la logica deve essere la stessa: sia perché le esigenze di riforma emergono continuamente, sia perché le amministrazioni hanno una capacità di assorbimento limitata, forse più limitata di quella delle organizzazioni private, quindi bisogna evitare di concentrare tutti i cambiamenti in un solo momento. La riforma Madia, in effetti, era un percorso di adeguamento: non c’era un nuovo modello unitario o un nuovo paradigma di amministrazione, era piuttosto una manutenzione straordinaria del sistema amministrativo.
La mia esperienza mi ha convinto anche di un altro punto importante. Proprio per via delle rigidità e delle resistenze, molto maggiori che nel settore privato, e dei poteri più limitati di chi dirige le amministrazioni pubbliche, le riforme amministrative non si realizzano con le leggi, ma con l’attuazione delle leggi. Abbiamo molte eccellenti leggi di riforma, che descrivono un sistema amministrativo perfetto, ma che vengono applicate poco e male. Il vero processo riformatore non è dato dalle leggi, ma dall’implementazione, la quale purtroppo manca, anche per via della breve durata dei governi: i ministri spesso fanno in tempo a ottenere l’approvazione di una legge, ma quasi mai riescono a seguirne l’attuazione, e spesso non si concentrano abbastanza su questo aspetto. Anche per questo è necessario investire sul personale politico, per dargli consapevolezza del fatto che il compito dei politici non è solo di stabilire le norme, ma anche di guidare le amministrazioni".

Uno dei punti della legge Madia rimasti sulla carta è stata la riforma della dirigenza. Perché? Peraltro, la legge Madia sollevava anche la questione, importante e delicata, del rapporto tra politica e amministrazione. Come, dal suo punto di vista, va impostata tale questione?

"La riforma della dirigenza pubblica era stata completata, con la delibera definitiva del Consiglio dei ministri, ma il procedimento fu interrotto in extremis da una strana e discutibilissima sentenza della Corte costituzionale, contrastante con la giurisprudenza precedente e anche con quella successiva. Al di là di questo episodio, la riforma era fieramente osteggiata da quei dirigenti – soprattutto i dirigenti di prima fascia dello Stato, e in particolare delle amministrazioni più importanti – che hanno posizioni di privilegio, le quali sarebbero state messe in pericolo dal sistema di mobilità e di concorrenza per gli incarichi dirigenziali, che la riforma voleva introdurre. Sono molto critico verso questi atteggiamenti e verso quella sentenza, ma non ho poi troppi rimpianti per quella riforma, che era obiettivamente troppo macchinosa e avrebbe introdotto un sistema difficile da gestire. La mobilità dei dirigenti e la competizione per gli incarichi possono essere ottenuti con meccanismi più semplici e graduali.
Quello del rapporto con la politica è un punto essenziale, che fu molto discusso anche in occasione della mancata riforma di cui stiamo parlando: si disse anche che la riforma avrebbe avuto un effetto di politicizzazione della dirigenza, quando essa avrebbe fatto il contrario.
A me sembra che, da questo punto di vista, la situazione attuale sia pessima: oggi, nei ministeri, si faccia carriera in buona parte per scelta politica. Ogni dirigente deve preoccuparsi di curare il rapporto con il ministro o con il capo di gabinetto, per ottenere in futuro la conferma nell’incarico o un incarico migliore. Non è sempre stato così e non è giusto che sia così. Prima del 1998 i dirigenti erano inamovibili. L’inamovibilità è stata giustamente eliminata con l’idea che la permanenza in carica dei dirigenti dovesse dipendere dalla valutazione dei loro risultati, ma di fatto la valutazione non si è sviluppata e le decisioni sulla conferma degli incarichi sono decisioni politiche.
Mi sembra, quindi, che l’esigenza di una riforma rimanga. La riforma dovrebbe mirare a: migliorare le modalità di reclutamento, soprattutto riformando i concorsi di accesso; tutelare maggiormente l’autonomia della dirigenza dalla politica; introdurre meccanismi credibili ed efficaci di valutazione; eliminare o ridurre drasticamente le quote di incarichi dirigenziali assegnate a soggetti esterni senza concorso. Vedo con preoccupazione, peraltro, che su quest’ultimo punto in questi giorni si ipotizza di fare esattamente il contrario, cioè di aumentare quelle quote".

Nei cambiamenti tecnologici, sempre più penetranti e accelerati, nella scheda sulla mission della Scuola si afferma che hanno “modificato le modalità di formazione dell’opinione pubblica e dato uno spazio enorme alla possibilità di manipolazione politica”. Un tema di cruciale rilevanza. Cosa fare su questo fronte? Serve un qualche intervento normativo? Come pure sulla questione della gerarchizzazione delle notizie, oggi decisa dagli algoritmi dei provider, che le gerarchizzano in base alle convenienze economiche basate sui ‘click’ o in base ad altre convenienze, trascurando spesso l’attendibilità e la credibilità della fonte.
"Indubbiamente si tratta di problemi di grande importanza, rispetto ai quali ci troviamo spesso impreparati per la loro novità. La loro difficoltà è ovviamente accresciuta dalla dimensione globale dei fenomeni che si sviluppano sulla rete internet e dalla forza degli operatori del settore, che richiede un difficile coordinamento tra istituzioni nazionali e ultrastatali.
Il tema della formazione dell’opinione pubblica è ovviamente cruciale per una scuola di formazione politica: agli allievi occorre insegnare sia come informarsi correttamente, sia come comunicare efficacemente. La politica deve avere un ruolo di guida nei confronti dei cittadini, ma ovviamente senza intaccare la libertà di informarsi e di informare.
Non so se i tempi siano maturi per un intervento normativo, ma certamente occorre introdurre almeno dei contrappesi rispetto alla forza di operatori economici globali e garanzie nei confronti delle informazioni distorte.
Ulteriori temi di grande attualità e rilevanza sono quelli connessi all’intelligenza artificiale, che offre grandi opportunità per le amministrazioni pubbliche, come per i soggetti privati, ma pone nuovi problemi di garanzia e di controllo.
Sono tutti temi che meritano di essere al centro della formazione per la futura classe politica. Una formazione che, a maggior ragione per temi complessi e nuovi come questi, deve consistere nel porre correttamente i problemi, piuttosto che nell’individuare soluzioni".
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