Dopo l’intesa di Turnberry, Bruxelles congela le ritorsioni. Ma il testo è ancora in alto mare e gli equilibri saltano a ogni passaggio.
Dieci giorni sull’ottovolante, tra strette di mano, diktat e minacce: è il bilancio provvisorio del cosiddetto Patto di Turnberry, l’intesa raggiunta il 27 luglio tra la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e Donald Trump per evitare una guerra commerciale a colpi di dazi. Un “accordo colossale” secondo la Casa Bianca, un “compromesso fragile” per gli osservatori europei. Con una certezza: a pagare, per ora, è l’Europa.
Dal taglio dei dazi agli investimenti promessi
Il cuore dell’intesa è semplice quanto pesante: Trump ha rinunciato ai dazi del 30% minacciati sull’export europeo, mantenendoli al 15% sulla maggior parte dei settori. In cambio, Bruxelles ha promesso 600 miliardi di investimenti in America e 750 miliardi di acquisti di energia Usa entro il 2028. La cifra è enorme, ma non è chiaro chi pagherà davvero: “Saranno investimenti privati”, ha assicurato la Commissione, nel tentativo di spegnere la polemica politica interna.
Subito le prime crepe: Francia in rivolta, Berlino tentenna
Già il giorno dopo, il 28 luglio, l’entusiasmo si è sgonfiato. A rompere il fronte è stato il premier francese François Bayrou, che ha parlato di “un giorno cupo per l’Europa” e di “cedimento senza contropartite”. La Germania, inizialmente soddisfatta per l’esclusione temporanea del settore auto, ha subito frenato: “L’accordo rischia di danneggiare la nostra manifattura”, ha dichiarato il ministro dell’Economia Olaf Lindner.
L’Europa a trazione tedesco-francese ha mostrato i primi segnali di frattura, e il testo congiunto che doveva sancire i dettagli dell’intesa è rimasto, letteralmente, in alto mare.
Il nodo dei settori chiave: Big Tech, chip, farmaci, difesa
Tre giorni dopo il patto, il 29 luglio, si è capito che le due parti parlano ancora lingue diverse. Gli Stati Uniti sostengono che l’Ue ha fatto marcia indietro su ogni tassazione alle Big Tech, inclusa la web tax. Bruxelles replica: “Non rinunciamo al diritto di legiferare, ma il dossier è sospeso fino alla fine del negoziato”.
Ancora più teso il confronto su farmaci e chip: gli Usa li considerano già soggetti al 15%, ma la Commissione insiste nel volerli esentare almeno fino alla fine delle indagini avviate dall’amministrazione americana. Nessun punto d’incontro, poi, su acciaio, alluminio e rame: Washington conferma dazi fino al 50%, mentre l’Ue parla di un possibile sistema di quote da negoziare.
Infine, il capitolo più controverso: la difesa. Secondo la Casa Bianca, il pacchetto include “acquisti significativi” di armi statunitensi da parte europea. Ma l’Ue smentisce seccamente: “La spesa militare non è oggetto dell’accordo”, ha dichiarato una fonte di Bruxelles.
I prodotti esclusi: per ora si salva solo l’aerospazio
Dal 30 luglio si è iniziato a negoziare sulle esenzioni. Bruxelles ha chiesto di salvaguardare settori strategici come agroalimentare, dispositivi medici, cosmetici e chimica fine. Ma al momento l’unico settore sicuro da tariffe è quello degli aerei. Vino e alcolici, invece, restano sotto osservazione, e i dazi al 15% scatteranno per gran parte degli altri prodotti a partire dal 7 agosto, come deciso unilateralmente da Washington.
La mossa dell’Europa: stop ai controdazi, ma a tempo
Il 5 agosto, a sorpresa, l’Ue ha congelato per sei mesi le misure di ritorsione da 93 miliardi di euro già pronte. Una decisione non semplice, che dovrà essere ratificata dai 27 Stati membri entro la fine di agosto. Ma nel frattempo Trump ha alzato ancora la posta: se l’Europa non rispetterà le scadenze sugli investimenti promessi, scatteranno dazi al 35%.
“La nostra linea è chiara: vogliamo stabilità, non escalation”, ha dichiarato Ursula von der Leyen, pur consapevole che la Commissione ha ormai poco margine di manovra. Il testo finale dell’accordo, infatti, non è ancora stato definito. E Bruxelles è in attesa di un segnale vincolante da parte americana, che però tarda ad arrivare.
Un accordo? Più un armistizio temporaneo
Secondo un’analisi del Financial Times, quello firmato in Scozia non è un vero accordo, ma piuttosto una tregua provvisoria. “L’Europa ha evitato il peggio, ma al costo di un compromesso che la mette in posizione subalterna”, si legge nel commento. E Politico ha parlato apertamente di “Trump che detta e Bruxelles che obbedisce”.
Il Parlamento europeo si prepara a una sessione straordinaria sull’argomento. I Verdi e la sinistra unitaria stanno valutando l’ipotesi di una mozione di censura nei confronti della Commissione, accusata di aver negoziato “in solitudine” e di aver concesso troppo in cambio di troppo poco.
Uno scambio asimmetrico: chi vince e chi perde
Gli Stati Uniti portano a casa tre risultati strategici: dazi contenuti ma in vigore, un flusso assicurato di acquisti europei nel settore energetico, e la sospensione della web tax per almeno un anno. L’Europa ottiene l’assenza di escalation e uno spiraglio per salvaguardare alcuni settori sensibili. Ma paga un prezzo altissimo, in termini politici e commerciali.
Non solo: l’atteggiamento di Trump rischia di spaccare definitivamente l’unità europea. “Se ognuno va per sé, diventeremo solo il mercato di qualcun altro”, ha detto l’eurodeputata tedesca Katarina Barley.
Cosa succede ora
Il testo finale è “in fase avanzata”, ma senza una firma vincolante da parte americana ogni clausola resta sulla carta. I negoziati tecnici riprenderanno a metà agosto, ma i veri nodi — energia, difesa, digitale e industria strategica — restano irrisolti. E ogni giorno che passa aumenta la sensazione che il patto di Turnberry sia stato il primo passo di una lunga marcia… a senso unico.