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Ue, la maggioranza Ursula si rompe sulla due diligence

- di: Vittorio Massi
 
Ue, la maggioranza Ursula si rompe sulla due diligence
Ue, la maggioranza Ursula si rompe sulla due diligence
Il centrodestra si allea con le destre e alleggerisce le regole sulle imprese, mentre a Strasburgo passa anche il nuovo obiettivo clima: -90% di emissioni entro il 2040.

La maggioranza Ursula scricchiola proprio sul terreno che l’aveva resa un marchio politico: il Green deal. A Strasburgo il Partito popolare europeo ha scelto di voltare le spalle a socialisti, liberali e verdi e di stringere un asse con i gruppi di destra per votare una versione alleggerita della direttiva sulla due diligence delle imprese nelle catene globali del valore. Nello stesso giorno, però, l’Europarlamento ha approvato anche il nuovo target sul clima: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040 rispetto ai livelli del 1990.

È un doppio voto che ridisegna i rapporti di forza in Europa: da una parte il segnale di un’Unione più indulgente con le grandi aziende in nome della sburocratizzazione, dall’altra la conferma formale di un’elevata ambizione climatica, ma con una dose di flessibilità che fa discutere.

Che cosa è la direttiva di due diligence

La direttiva sulla Corporate Sustainability Due Diligence è il pilastro del tentativo europeo di rendere le imprese responsabili degli impatti ambientali e sui diritti umani lungo l’intera catena di fornitura, dai campi agricoli alle fabbriche di subappalto in Asia.

Il testo originario, approvato nel 2024, era stato presentato come la risposta politica a tragedie come il crollo del Rana Plaza in Bangladesh, nel 2013, in cui morirono oltre mille lavoratori tessili schiacciati dal collasso di un edificio industriale. L’idea era chiara: chi trae beneficio da filiere globali deve vigilare su condizioni di lavoro, deforestazione, sfruttamento minorile, inquinamento.

In quella versione, la direttiva si applicava già alle imprese con circa 1.000 dipendenti e 450 milioni di euro di fatturato e contemplava sanzioni fino al 5% del giro d’affari globale in caso di violazioni, oltre all’obbligo di predisporre piani di transizione climatica coerenti con l’Accordo di Parigi.

Soglie più alte, obblighi più leggeri

Con il voto più recente il Parlamento ha però rovesciato la logica di fondo: la nuova posizione affida la due diligence solo a una ristretta élite di colossi. La direttiva, nella versione votata a Strasburgo, scatterà infatti per le imprese con oltre 5.000 dipendenti e almeno 1,5 miliardi di euro di fatturato annuo.

Non è l’unica limatura. Viene abolito l’obbligo per le aziende di predisporre piani di transizione climatica vincolanti e si passa da una logica di responsabilità diretta a un sistema basato soprattutto su sanzioni pecuniarie e su norme di responsabilità civile affidate agli Stati membri. Le imprese dovranno comunque analizzare i rischi lungo la filiera, ma potranno modulare l’ampiezza dei controlli in chiave “risk based”.

Anche il capitolo sulla rendicontazione di sostenibilità, legato alla direttiva sui bilanci (CSRD), viene alleggerito: l’obbligo di report ambientali e sociali, oltre che di rendicontazione in base alla tassonomia verde, scatterà solo per le aziende con più di 1.750 dipendenti e almeno 450 milioni di euro di fatturato. In pratica, una quota consistente del medio tessuto produttivo europeo esce dall’orizzonte delle nuove regole.

Il gioco delle alleanze a Strasburgo

Al centro della svolta c’è la scelta politica del Ppe. I popolari, tradizionale architrave della maggioranza Ursula insieme a socialisti e liberali, hanno deciso di allinearsi al fronte delle destre europee, dai Conservatori dell’Ecr alla nuova galassia dei Patrioti.

Il testo è passato con 382 voti a favore, 249 contrari e 13 astenuti. Accanto al blocco Ppe–Ecr–Patrioti si sono registrati anche alcuni franchi tiratori nelle famiglie che storicamente difendono il Green deal: una quindicina di socialisti e quasi 20 liberali hanno scelto di appoggiare l’alleggerimento delle norme, segno che la tensione tra ambiente e competitività attraversa ormai tutti gli schieramenti.

Dal fronte verde e socialista la lettura è opposta: la nuova soglia a 5.000 dipendenti per la due diligence e la rinuncia ai piani climatici obbligatori vengono descritte come una retromarcia storica. In Aula la co-presidente dei Verdi, Terry Reintke, ha accusato popolari e destre di aver creato un’inedita alleanza con i leader sovranisti. “Hanno scelto di allearsi con Orbán e Le Pen per svuotare le leggi ambientali e sui diritti umani”, ha attaccato, leggendo il voto come il primo vero test del nuovo baricentro a destra del Parlamento europeo.

Dall’altro lato dell’emiciclo, i Conservatori e i Patrioti parlano invece di vittoria del “buon senso economico”. Dirigenti della destra sovranista, tra cui esponenti vicini alla Lega italiana e al Rassemblement National francese, rivendicano di aver infranto il vecchio “cordone sanitario” che teneva le forze non centriste lontane dalle scelte chiave, trasformandole in ago della bilancia sulla regolazione economica europea.

Pressioni internazionali, Omnibus e paura della burocrazia

La battaglia sulla due diligence non si gioca solo dentro l’Aula di Strasburgo. Da mesi il dossier è al centro di pressioni esterne da parte di governi e grandi gruppi energetici. Stati Uniti e Qatar hanno chiesto con insistenza di ammorbidire le regole, temendo che standard troppo severi possano mettere a rischio contratti di fornitura di gas e investimenti strategici.

Sullo sfondo c’è il pacchetto di semplificazione Omnibus I, presentato dalla Commissione per ridurre gli oneri amministrativi legati alla rendicontazione di sostenibilità e alla due diligence. L’argomento dei fautori dell’alleggerimento è che una sovrapposizione di obblighi, scadenze e moduli rischia di frenare gli investimenti e di spingere attività e capitali fuori dall’Europa.

Per il Ppe e per una parte del gruppo liberale, limitare la portata della direttiva alle imprese più grandi significa concentrare gli sforzi dove l’impatto è maggiore e nello stesso tempo proteggere Pmi e mid-cap da vincoli percepiti come sproporzionati. La presidente dell’Eurocamera Roberta Metsola, da tempo impegnata sul tema della “semplificazione”, ha saldato questo messaggio con quello della competitività: ridurre la burocrazia come condizione per difendere occupazione, investimenti e stabilità.

Dall’altra parte, Ong e associazioni per i diritti umani denunciano il rischio che, escludendo la maggioranza delle aziende, si crei una “zona grigia” delle filiere, in cui abusi e impatti ambientali restano di fatto invisibili pur rifornendo brand noti ai consumatori europei.

Il voto sul clima: -90% emissioni al 2040, ma con margini di manovra

Paradossalmente, nello stesso giorno in cui il Parlamento riduce la platea delle aziende coperte dalla due diligence, l’Aula approva un obiettivo climatico che resta tra i più ambiziosi al mondo: taglio del 90% delle emissioni nette entro il 2040 rispetto al 1990, come tappa intermedia verso la neutralità climatica al 2050.

La risoluzione è passata con 379 voti favorevoli, 248 contrari e 10 astenuti. Il testo introduce tuttavia nuove forme di flessibilità: a partire dal 2036, fino a cinque punti percentuali della riduzione potrà essere coperta attraverso crediti di carbonio internazionali, a condizione che siano “di alta qualità” e soggetti a controlli stringenti. Inoltre l’entrata in vigore del nuovo sistema di scambio delle emissioni per edifici e trasporti (ETS2) viene rinviata dal 2027 al 2028.

Per i promotori, la possibilità di ricorrere ai crediti e il rinvio di ETS2 sono strumenti per rendere il percorso climaticamente credibile ma socialmente e economicamente sostenibile, in un’Europa alle prese con un rallentamento della crescita e con l’aumento delle spese per difesa ed energia. Per ambientalisti e parte della sinistra, invece, il rischio è di trasformare una parte degli impegni in contabilità creativa, spostando altrove gli sforzi di riduzione effettiva delle emissioni.

Cosa cambia per le imprese europee

Il messaggio che arriva alle aziende è chiaro: nel breve periodo, una quota importante del tessuto produttivo europeo vedrà un alleggerimento degli oneri. Le imprese sotto la soglia di 1.750 dipendenti e 450 milioni di fatturato non saranno più obbligate a redigere dettagliati bilanci di sostenibilità secondo gli standard europei e potranno limitarsi a informazioni più sintetiche o volontarie.

Per i colossi sopra i 5.000 dipendenti e 1,5 miliardi di giro d’affari, invece, la partita è più complessa. Da un lato, la nuova versione della due diligence consente di concentrare i controlli sui rischi più rilevanti e di evitare alcuni adempimenti considerati ridondanti. Dall’altro, la combinazione tra obblighi di vigilanza, possibili sanzioni nazionali e reputazione sui mercati internazionali spinge verso una gestione più strutturata di filiere, fornitori e subappaltatori.

Un tema cruciale sarà il rapporto tra grandi gruppi e Pmi della catena di fornitura. Anche se le imprese minori escono formalmente dall’obbligo di reportare secondo CSRD, i grandi committenti potrebbero continuare a chiedere informazioni e garanzie per non esporsi a rischi legali e reputazionali. La reale riduzione della burocrazia, dunque, dipenderà da come verranno declinati i contratti di fornitura e dalle linee guida che Commissione e Stati membri metteranno sul tavolo.

Green deal alla prova del nuovo Parlamento

Al di là dei dettagli tecnici, il voto su due diligence e clima racconta un cambio di stagione. Dopo le elezioni europee che hanno spostato l’ago della bilancia a destra, il Ppe ha dimostrato di poter costruire maggioranze alternative con i gruppi conservatori e sovranisti, soprattutto quando si tratta di norme economiche e industriali.

Il Green deal non scompare, ma viene “ri-scritto” in chiave più favorevole alle imprese e ai governi che temono un eccesso di costi e vincoli regolatori. Al tempo stesso, la conferma del target clima -90% al 2040 serve a mantenere l’Unione nel gruppo di testa della diplomazia climatica in vista dei negoziati internazionali e del vertice Onu di Belém.

Il prossimo banco di prova sarà il negoziato con i governi nazionali. Il mandato negoziale votato dal Parlamento apre ora la fase dei triloghi con Consiglio e Commissione, con l’obiettivo di chiudere l’accordo sulla semplificazione di reporting e due diligence entro la fine del 2025. In quella sede si capirà se la “nuova” maggioranza che ha rotto l’asse Ursula è un episodio isolato o l’anticipazione di una nuova geometria politica europea.

Per imprese, lavoratori e cittadini, la posta in gioco è alta: trovare un equilibrio credibile tra lotta alla crisi climatica, tutela dei diritti e tenuta competitiva dell’economia europea. Il voto di Strasburgo dice che quell’equilibrio, per ora, si è spostato un po’ più dalla parte delle aziende. Ma il cantiere del Green deal è tutt’altro che chiuso.

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