Negli ultimi anni si sta delineando con crescente preoccupazione una nuova forma di violenza minorile, che si manifesta attraverso dinamiche di branco, azioni premeditate e spesso motivate da odio razziale o ideologico. Non si tratta più solo di atti di bullismo o devianza adolescenziale, ma di vere e proprie aggressioni che assumono i contorni di fenomeni criminali strutturati. La presenza sui social di contenuti violenti, l’assenza di modelli educativi solidi e la fragilità del contesto familiare sono solo alcune delle cause che alimentano comportamenti sempre più aggressivi e meno controllabili.
Il volto oscuro della violenza giovanile: quando l’odio si fa branco
Questi episodi non avvengono più nelle periferie abbandonate, ma spesso nel cuore delle città, in quartieri popolari segnati da disoccupazione, marginalità e una crescente sfiducia nelle istituzioni. I minori coinvolti agiscono in gruppo, spinti dalla forza dell’emulazione e da un senso distorto di appartenenza, dove la violenza diventa strumento di affermazione e linguaggio d’identità. Quando poi la vittima è percepita come “diversa” – per etnia, religione o condizione sociale – il branco si trasforma in macchina di esclusione e punizione.
Il caso di Taranto: un'aggressione che scuote
È in questo quadro preoccupante che si inserisce quanto avvenuto a Taranto, nel quartiere Tamburi, nel gennaio scorso. Sette minorenni, tutti di età compresa tra i 14 e i 17 anni, sono accusati di aver preso di mira un giovane bracciante straniero di 26 anni, accerchiandolo e colpendolo con pietre e oggetti contundenti. L’aggressione ha provocato gravi lesioni al volto e al corpo della vittima, tanto da rendere necessario un ricovero urgente. La brutalità non si è esaurita lì: dopo appena due giorni, i minori sono tornati a colpire, lanciando sassi contro l’abitazione del bracciante e continuando a minacciarlo.
Le indagini della procura distrettuale antimafia di Bari hanno rivelato la matrice d’odio dell’aggressione. Gli inquirenti parlano di “lesioni personali aggravate dall’odio”, configurando un reato grave che ha spinto il gip del Tribunale per i minorenni di Taranto, Paola Morelli, ad adottare misure cautelari pesanti: i sette ragazzi sono stati collocati in sette comunità educative diverse, proprio per evitare contatti tra loro e impedire nuove forme di organizzazione violenta.
Una comunità ostaggio della violenza
Le azioni del gruppo non si sono limitate al solo caso del bracciante. In un secondo episodio, avvenuto a fine gennaio, due degli stessi minori hanno bloccato un’auto guidata da una donna, costringendola a passare tra insulti e lanci di oggetti. Al momento dell’arrivo delle forze dell’ordine, la situazione è degenerata in una vera e propria guerriglia urbana: spranghe, pietre e barricate improvvisate hanno ostacolato l’intervento dei carabinieri.
A rendere ancora più preoccupante il quadro c’è l’uso sistematico della violenza come linguaggio relazionale e mezzo di espressione. Non solo l’odio verso lo straniero, ma anche la sfida all’autorità e l’intenzionale spettacolarizzazione del gesto. Non è un caso che alcune sequenze siano state riprese e diffuse attraverso smartphone, come se la violenza fosse parte di un rito condiviso, un contenuto da “viralizzare”.
Un grido d’allarme che interroga le istituzioni
Il caso di Taranto non è un episodio isolato. Da nord a sud, si moltiplicano le segnalazioni di aggressioni compiute da gruppi di minori, spesso senza apparente motivo se non l’adesione a una logica da branco. Le istituzioni, la scuola, le famiglie e la società civile sono chiamate a una riflessione profonda, che vada oltre l’emergenza. Serve un nuovo patto educativo e sociale, capace di restituire senso, responsabilità e speranza a una generazione che, troppo spesso, cerca se stessa nell’odio e nella forza.