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Il voto inquinato come sistema: quando la politica diventa ostaggio del consenso comprato

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Il voto inquinato come sistema: quando la politica diventa ostaggio del consenso comprato

In Italia, il voto non è sempre espressione libera e consapevole della volontà popolare. In molti territori, soprattutto nel Mezzogiorno ma non solo, esiste da decenni un fenomeno sommerso e al tempo stesso strutturale: lo scambio politico-mafioso. Un meccanismo che trasforma il momento elettorale da esercizio democratico in atto negoziato, in cui il consenso non nasce dall’adesione a un programma o a un’idea, ma viene costruito, manipolato, comprato.

Il voto inquinato come sistema: quando la politica diventa ostaggio del consenso comprato

Il voto inquinato non si limita al momento delle urne. È un sistema che ha bisogno di accordi prima, durante e dopo. Prima, attraverso promesse di favori, nomine, appalti, assunzioni clientelari. Durante, grazie alla pressione sui cittadini attraverso il controllo sociale esercitato dalle organizzazioni criminali. Dopo, con la restituzione del favore: incarichi pubblici, finanziamenti pilotati, omertà istituzionale. È un ciclo che si alimenta di paura, opportunismo e assenza dello Stato.

Secondo i dati dell’ultima Relazione della Direzione Investigativa Antimafia (DIA), sono decine i comuni italiani sciolti per infiltrazioni mafiose ogni anno. In molti casi, le indagini dimostrano come la politica abbia aperto varchi alla criminalità non per necessità, ma per convenienza. I clan offrono pacchetti di voti. I politici li accettano. In cambio, lasciano spazio nella gestione degli appalti pubblici, chiudono un occhio su concessioni, permessi, controlli.

Il voto di scambio come strumento di potere locale

Il problema non riguarda solo i grandi reati o le clamorose operazioni della magistratura. È più spesso una zona grigia, difficile da circoscrivere, dove l’illegalità non è violenta ma insinuante. Dove non ci sono minacce esplicite, ma reti di relazioni opache che portano, in modo quasi naturale, alla costruzione di sistemi di potere basati sulla cooptazione e sul favore.

Molti amministratori locali si muovono all’interno di questo perimetro. Alcuni lo subiscono. Altri lo alimentano. La crisi dei partiti e il progressivo svuotamento del dibattito pubblico hanno contribuito a rafforzare questa tendenza. In territori dove la politica non ha più un presidio culturale forte, il controllo del voto diventa l’unico vero capitale. E chi lo detiene, comanda.

Lo scambio politico-mafioso, a differenza della corruzione classica, ha un valore sociale. Non serve solo ad arricchire. Serve a governare. Serve a restare. È il cemento con cui si costruiscono carriere, alleanze, equilibri. E quando il sistema si rompe, come accade quando la magistratura interviene, si scopre che la rete era molto più estesa di quanto si potesse immaginare.

Il caso Alfieri: un nome, un metodo, una rete

L’arresto di Franco Alfieri, ex presidente della Provincia di Salerno ed ex sindaco di Capaccio Paestum, non è solo una vicenda personale. È l’emersione giudiziaria di un sistema che da anni rappresenta una delle degenerazioni più profonde del potere locale. Il provvedimento emesso dal gip del Tribunale di Salerno su richiesta della Direzione distrettuale antimafia lo accusa di scambio elettorale politico-mafioso, in un’inchiesta che tocca anche l’Abruzzo e coinvolge altri nove soggetti.

Alfieri era già stato arrestato lo scorso ottobre per presunti appalti truccati. Ma ora il quadro si allarga. Secondo gli inquirenti, esisteva una rete di rapporti tra politica e criminalità organizzata finalizzata a condizionare le elezioni attraverso la compravendita di voti. Un patto che avrebbe garantito al politico un bacino stabile di consensi, e agli interlocutori criminali accesso privilegiato a risorse e potere decisionale.

Le accuse parlano di un accordo stabile, reiterato, consapevole. Non di un episodio. Non di una leggerezza. Ma di una strategia. Di un modo di stare nella politica. Di una visione distorta del consenso, piegato non alla rappresentanza, ma al controllo. Un controllo che si esercita non solo attraverso i voti, ma anche attraverso la gestione dell’informazione, l’influenza sugli enti pubblici, la capacità di condizionare il futuro economico di un territorio.

Silenzio e imbarazzo: la politica che non vuole vedere


La notizia dell’arresto ha prodotto una reazione quasi muta. Niente commenti ufficiali da parte dei partiti, nessun comunicato dai gruppi consiliari locali o regionali. Eppure, Alfieri era un nome conosciuto, un punto di riferimento per anni. Il suo profilo – amministratore esperto, uomo di territorio, mediatore tra interessi diversi – era stato valorizzato anche oltre i confini della Campania.

Il suo silenzio, oggi, si riflette in quello di chi lo aveva sostenuto. Ed è proprio questo silenzio che contribuisce a rafforzare la sensazione di una tolleranza diffusa, di una cultura politica incapace di elaborare gli errori, di ammettere le proprie responsabilità, di tagliare davvero i ponti con le pratiche opache.

Il caso Alfieri non è un caso isolato. È un frammento di una storia più grande. La storia di una democrazia che in alcuni angoli del Paese fatica ancora a essere libera, autentica, pulita. La storia di un’Italia che ha bisogno non solo di leggi e controlli, ma di una nuova etica pubblica, capace di restituire valore al voto, dignità alle istituzioni, verità al consenso.

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