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Amministrative: la sconfitta del centrodestra non ha padri e madri

- di: Redazione
 
Amministrative: la sconfitta del centrodestra non ha padri e madri
Le analisi del voto (e quindi della sconfitta o, nella versione più in voga, della 'non vittoria') che vengono dal centrodestra nelle amministrative sono la raffigurazione migliore della politica italiana. E il ragionamento sarebbe lo stesso se a prevalere fossero stati i partiti del centrosinistra. Il perché è abbastanza scontato: ammettere una sconfitta peraltro abbastanza pesante significa che ci sono delle responsabilità e che di esse qualcuno dovrebbe farsene carico. Prova ne è che la Lega, nonostante l'esito del voto di Roma, Milano e Torino, canta vittoria dicendo di avere conquistato i sindaci di città certamente nobili, ma dal peso politico infinitesimale rispetto alle tre metropoli. È come se la Lega dicesse che bere tre bicchieri di vino da contenitori di cartone è lo stesso che gustare un calice di Sassicaia.

La sconfitta del centrodestra alle elezioni amministrative non ha padri né madri

Invece, nessuno ammette di avere sbagliato, scaricando il peso di quanto accaduto su entità indistinte e che, di conseguenza, non hanno casacca, l'assenteismo in prima battuta. Ma questa volta il centrodestra (al netto del solito e rimasticato refrain che le amministrative non possono essere automaticamente duplicate nelle politiche) deve avere il coraggio di capire. E diciamo questo da osservatori della politica italiana e non certo di partigiani di questo o quello schieramento.

La corsa a dare la maggior parte delle colpe a fattori esterni è un modo semplicistico di fare una analisi dell'accaduto, dimenticando che sono stati i vertici di Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia a scegliere i candidati e come le loro campagne dovevano essere condotte. Modelli che, c'è da ritenere, siano stati pensati da chi di tecniche di conquista del consenso ne capisce tanto.
Ed invece è stato l'esatto contrario. Lo ha dimostrato Luca Bernardo, persona degnissima sino a prova del contrario, ma che si è trovato catapultato nell'agone della politica milanese - molto più raffinato di altre città - senza una preparazione specifica e mancando anche della forza comunicativa che era necessaria per contrastare un candidato fortissimo a succedere a sé stesso come Beppe Sala. Se a questo si aggiunge che i rubinetti dei contributi elettorali, che dovevano arrivare dai partiti del centrodestra, si sono subito seccati il quadro è chiaro: su Bernardo non si credeva e, quindi, qualcuno ha pensato che sostenere economicamente la sua campagna elettorale era denaro sprecato.

Discorso diverso per il candidato del destra/centro per Roma, Enrico Michetti che era gradito solo da una ristretta cerchia e che, nonostante il profilo politico bassissimo (a meno che l'essere un conduttore di una radio romana ne facesse un fuoriclasse assoluto), è stato scaraventato in pista. Con il risultato che a lungo andare le dissonanze politiche di Michetti sono venute a galla, come le improvvide esternazioni che, affidate all'aere radiofonico in tempi relativamente lontani, sono riemerse dal ventre della Rete che tutto ingurgita e metabolizza, ma mai cancella.
Ma Michetti, in questo, ha colpe relative: ha le sue idee (balzane per la maggior parte della gente che non si riconosce in teorie un pizzico anti-semite, razziste e nostalgiche) e ha il diritto di esprimerle, sempre nei limiti della decenza che non sempre coincidono con quelli della legge. Ma, e questa domanda se la dovrebbero porre coloro che ne hanno sostenuto la candidatura, a chi spettava il compito di valutarne la presentabilità e ha sottovalutato le frasi d'un tempo?

Un partito o una coalizione che si ritiene al di sopra delle critiche non può cadere in errori del genere.
Negli Stati Uniti chi si candida a qualsiasi carica elettiva lo fa sapendo che tutto del suo passato potrebbe essergli rinfacciato. Chiedere la stessa attenzione agli sponsor di Michetti (sostenuto fortissimamente da Fratelli d'Italia) era troppo? In più d'uno dice oggi che se si fosse candidata Giorgia Meloni a sindaco di Roma avrebbe vinto a mani basse sin da primo turno. Ma, e la domanda è rivolta all'entourage della presidente di Fratelli d'Italia, possibile che tra lo zenith-Meloni e il nadir-Michetti non ci fosse una figura politica intermedia capace di ''succhiare' consenso pur non essendo ''Giorgia''?

Eppure i segnali che quella di Enrico Michetti non fosse la scelta giusta (da un punto di vista politico) erano stati subito evidenti perché un 'tribuno radiofonico' non necessariamente può essere spendibile senza lo scudo di un microfono. Di questo s'è giovato Roberto Gualtieri che forse non ha il profilo del grande comunicatore, che forse non trascinerà le folle, che forse non sarà spumeggiante quando si tratta di parlare a braccio, ma dà l'impressione di potere restituire alla figura del sindaco di Roma un profilo rassicurante, dopo il tourbillon di nomine, delibere, cancellazioni di chi l'ha preceduto. Virginia Raggi, che ha scelto di andare all'opposizione, sembra essersi attribuita un ruolo di 'madre nobile' della legislatura, evidentemente senza la memoria di quello che la sua sindacatura ha significato per la città, con responsabilità che non si è mai assunta, assecondata da alcuni quotidiani tifosi che ancora oggi, dopo che l'elettorato l'ha sonoramente mandata a casa, ne rivendicano la purezza della politica. Roma, invece, dovrebbe avere l'aiuto di tutti, a cominciare dai Cinque Stelle che possono contribuire a fare emergere dalla città il meglio.
Ma la politica è un altra cosa. Come insegnò Sansone che si tirò dietro i filistei.
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