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Un anno di Brexit ha reso il Regno Unito più debole

- di: Redazione
 
Un anno di Brexit ha reso il Regno Unito più debole
Sull'uscita della Gran Bretagna dall'Europa si è scritto tanto e, probabilmente, la Brexit sarà oggetto di ancora molti libri che verteranno sugli aspetti economici, ma anche su quelli politici e sociali che questa scelta ha determinato e che aveva spinto Boris Johnson a sognare una Global Britain che sembra ancora molto lontana dall'avverarsi.
Sono spesso diverse e alternative le analisi che vengono fatte, tra le quali comunque prevalgono - in termini numerici: su quelli qualitativi è ancora presto per esprimersi - quelle che ritengono che la Brexit abbia avuto un peso enorme, ma forse nel momento che meno era conveniente. In ogni caso, ancora oggi, non è possibile fare una previsione su come impatterà sul futuro di un Paese che , comunque, vive peggio rispetto al passato. E il fatto che la maggioranza dei britannici diano un giudizio negativo sulle conseguenze della Brexit è una semplice conferma.

Un anno di Brexit ha reso il Regno Unito più debole

Alcune fonti qualificate, comunque, si spingono, parlando di previsioni, in un terreno negativo per l'economia britannica. Come l'Office of Budget Responsibility - emanazione del ministero del Tesoro e, quindi, potenzialmente condizionato dalla politica, che ha stimato al 4% l'impatto negativo sul PIL che la Brexit avrà a lungo termine. Un dato drammaticamente inequivocabile.
Certo la definizione di ''lungo termine'' è abbastanza indeterminato, ma le considerazioni che vengono fatte sono essenzialmente la fotografia dell'esistente. Come quella che sottolinea che in condizioni normali il Regno Unito avrebbe dovuto essere un Paese in grado di rispondere bene alla crisi e di uscire da essa.

La pandemia non conosce eccezioni e il Regno Unito, a dispetto della rivendicata originalità rispetto al Continente, è stato costretto a rispondere come gli altri, con l'accelerazione della spesa pubblica. Ma il rimbalzo della crisi che avrebbe potuto essere più vantaggioso per le caratteristiche economiche del Paese, è stato ostacolato dai problemi derivanti da un'uscita dall'UE per la quale molte aziende, impegnate a sopravvivere al Coronavirus, non hanno avuto tempo prepararsi. L'anno che sta per concludersi è stato di transizione.
L'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) prevede una crescita del PIL del Regno Unito del 4,7% per il 2022 e del 2,1% per l'anno successivo. Una previsione nettamente peggiore rispetto ad altri Paesi occidentali anche con economie non robuste come la sua (ad esempio i ''numeri'' della Spagna sono del 5,5% e del 3,8%).

Secondo l'Istituto nazionale per la ricerca economica e sociale, i problemi di approvvigionamento a breve termine che il Regno Unito deve affrontare persisteranno e questo fenomeno sarà peggiorato dalla Brexit, che ha causato una riduzione del mercato del lavoro, ha diminuito i livelli di investimento delle aziende e ha causato una certa contrazione nel settore commerciale.
Un aspetto certo importante è anche il ''saldo'' degli immigrati. Durante la fase più acuta della pandemia (che oggi, con la variante Omicron, ha drammaticamente ripresa la sua corsa) , dalla primavera del 2020 a parte del 2021, circa un milione e duecentomila immigrati hanno lasciato il Regno Unito, secondo l'Istituto nazionale di statistica. Molti di loro erano cittadini dell'UE che hanno deciso di tornare alla loro terra con le loro famiglie, piuttosto che sperperare i loro risparmi in un Paese ''chiuso'', che avrebbe limitato le opportunità di lavoro. Comunque, quasi sei milioni di immigrati hanno deciso di restare nel Regno Unito, accedendo al cosiddetto EU Settlement Scheme.

Processo che è stato accettato da quasi sei milioni di cittadini comunitari residenti in territorio britannico. Quelli che non hanno seguito questo percorso burocratico si sono viste sbarrate le strade del ritorno, una volta finita la pandemia. D'altra parte il Ministero degli Interni del Regno Unito è guidato da una ''dura'', forte sostenitrice della Brexit, Priti Patel, che, poco dopo l'insediamento di Boris Johnson, ha fatto approvare una nuova legge sull'immigrazione che di fatto impediva la libertà di movimento delle persone provenienti dagli altri Paesi Ue e rese più difficili le condizioni di ingresso nel mercato del lavoro britannico. Cosa che ha reso molto complicato uscire dalla crisi pandemica con una carenza di manodopera. Tanto che, quando all'inizio dell'estate è partita la ripresa, molte aziende sono state in grande difficoltà per la carenza di personale. Un fenomeno che si è manifestato anche altrove (come nel caso degli Stati Uniti), ma che nella Gran Bretagna della Brexit si è aggravato.

Nell'area euro, circa il 25% delle imprese ha sottolineato le difficoltà legate alla forza lavoro. Ma mentre in Europa si può sfruttare la flessibilità offerta dal mercato interno, questo è difficile in Gran Bretagna.
È vero che il Regno Unito ha avuto da almeno dieci anni problema di bassa produttività, abituato com'era a un flusso inesauribile di manodopera a basso costo e qualificata, principalmente dal sud e dall'est dell'UE.
Quando, all'improvviso, la Brexit e la pandemia hanno inaridito l'arrivo di manodopera a basso costo, la linea di Johnson non è cambiata, tanto che il premier, ai parlamentari conservatori, in ottobre ha detto: "Non torneremo al vecchio e rotto modello di bassi salari, bassa crescita, basse qualifiche professionali e bassa produttività, alimentati e assistiti dall'immigrazione incontrollata".

Le problematiche sempre più evidenti della Brexit, nella logistica e nelle procedure doganali, ricordano che il Regno Unito ha cambiato da un giorno all'altro la propria struttura commerciale, uno dei cambiamenti più complessi e profondi che un Paese possa apportare. Si è passati dall'essere parte di un mercato che comprendeva 27 paesi e 400 milioni di persone ad affrontare da sola una globalizzazione sempre più complessa.
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