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Martina Carbonaro, il suo assassino trasferito: la fragilità dell’odio tra adolescenti

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Martina Carbonaro, il suo assassino trasferito: la fragilità dell’odio tra adolescenti

Il nome di Martina Carbonaro è diventato simbolo di una tragedia che ha travolto non solo una famiglia, ma l’intero tessuto sociale di Afragola e oltre. La ragazza, appena quattordicenne, è stata uccisa con freddezza e ferocia da Alessio Tucci, suo conoscente.

Martina Carbonaro, il suo assassino trasferito: la fragilità dell’odio tra adolescenti

Il caso ha scosso profondamente l’opinione pubblica, toccando corde sensibili su cui raramente si riesce a riflettere a fondo: l’aggressività giovanile, il disagio psicologico degli adolescenti, la solitudine che si nasconde dietro i profili social e i sorrisi obbligati nelle foto scolastiche. A distanza di settimane, la vicenda torna sotto i riflettori a causa della decisione dell’amministrazione penitenziaria di trasferire Tucci dal carcere di Poggioreale in un altro penitenziario della regione.

Una misura per tutelare la vita del colpevole

Il trasferimento, secondo fonti ufficiali, è stato deciso per garantire l’incolumità dell’adolescente reo confesso. Dopo l’arresto, Alessio Tucci era stato rinchiuso nel carcere napoletano in condizioni di isolamento, ma il clima ostile e la tensione crescente all’interno della struttura hanno spinto le autorità a spostarlo. L’obiettivo dichiarato è evitare atti di violenza da parte di altri detenuti e tutelare anche il personale carcerario. Un paradosso amaro: da un lato, l’Italia discute di giustizia e punizione per un atto che ha spezzato una vita innocente; dall’altro, si rende necessaria la protezione di chi quella vita l’ha distrutta. La tensione tra desiderio di vendetta sociale e tutela dello Stato di diritto si fa sempre più evidente.

La violenza che nasce nel silenzio

La storia di Martina e Alessio non è una rarità, e questo è ciò che inquieta di più. L’apparente normalità di entrambi – studenti, figli, ragazzi cresciuti in famiglie non segnate da particolari marginalità – svela una frattura che attraversa in profondità la generazione post-pandemica. Il gesto estremo, l’omicidio, è solo l’epilogo di una serie di segnali di disagio che spesso non vengono colti o vengono sottovalutati: isolamento, rabbia repressa, mancanza di strumenti per esprimere la propria fragilità. Il gesto di Alessio Tucci non è soltanto una colpa individuale, ma anche il prodotto di un contesto che non ha saputo ascoltare in tempo.

Educazione emotiva, il grande assente

Nel dibattito pubblico, a seguito dell’omicidio, si sono levate voci che invocano pene più dure, processi più rapidi, più carcere. Ma quasi nessuno ha affrontato la radice del problema: la mancanza di un’educazione emotiva e relazionale nelle scuole e nelle famiglie. Gli adolescenti italiani crescono in un mondo iperconnesso e privo di connessione autentica, sommersi da modelli tossici e aspettative irrealistiche. Non esistono spazi strutturati per imparare a riconoscere e gestire la rabbia, il rifiuto, la gelosia, la solitudine. In questo vuoto crescono mostri silenziosi che, a volte, esplodono con la forza di un gesto irreversibile.

La giustizia e il bisogno di elaborazione collettiva

Il trasferimento dell’assassino di Martina è un atto amministrativo, ma anche un passaggio simbolico. Dice qualcosa sulla necessità di difendere la civiltà giuridica anche quando il dolore sembra urlare il contrario. Ma non può bastare. Perché l’Italia non abbia altre Martine da piangere, occorre affrontare il dolore come società, non solo come sistema penale. Servono percorsi di ascolto, prevenzione, formazione degli insegnanti, dialogo nelle famiglie, spazi pubblici sicuri. Non per giustificare, ma per comprendere. Perché la vera giustizia non è solo punire chi ha sbagliato, ma impedire che altri sbaglino nello stesso modo.

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