Ci sono parole che nei provvedimenti giudiziari pesano come macigni. “Particolare brutalità di gruppo”. Non è un’espressione usata con leggerezza, non è una formula automatica. È la scelta di un collegio giudicante che ha deciso di chiamare le cose con il loro nome. I giudici del tribunale di Tempio Pausania, nelle motivazioni della sentenza depositate in queste ore, spiegano perché Ciro Grillo e i suoi tre amici sono stati condannati per violenza sessuale di gruppo. E spiegano soprattutto perché la ragazza che ha denunciato è pienamente attendibile.
Caso Grillo Jr, quando i giudici parlano di brutalità
Settantadue pagine per ricostruire una notte dell’estate 2019 in Costa Smeralda, dentro un residence privato, lontano da occhi indiscreti, dentro un contesto che i giudici definiscono predatorio e prevaricatorio. Una giovane studentessa italo-norvegese di diciannove anni, un’amica poco più che maggiorenne, un invito, una festa che non è una festa. E poi il confine che viene superato. Non per errore, non per equivoco.
Ma – scrivono i giudici – in un contesto di costrizione e impossibilità di reagire.
La sentenza respinge con fermezza una delle narrazioni più ricorrenti nei processi per violenza sessuale: quella che cerca crepe nel racconto della vittima, che pesa ogni parola pronunciata a distanza di anni, che trasforma il trauma in un test di coerenza. Qui il tribunale dice altro. Dice che il racconto della ragazza è rimasto immutato nel suo nucleo essenziale. Dice che le presunte contraddizioni sono fisiologiche, umane, inevitabili quando si tenta di ricordare “infiniti dettagli” di una violenza subita tempo prima.
E dice, soprattutto, che il consenso non c’è. Non può esserci. Perché – spiegano i giudici – ciò che è avvenuto si è consumato in un clima di sopraffazione, in una dinamica collettiva in cui il gruppo agisce come un corpo unico, compatto, coeso. È questa la brutalità: non solo l’atto, ma il modo. L’azione coordinata, l’assenza di freni, la totale indifferenza per la fragilità dell’altra persona.
In quelle pagine non c’è solo la cronaca di una violenza. C’è una riflessione più ampia sul potere, sull’asimmetria, sulla solitudine di chi si trova improvvisamente senza via d’uscita. La ragazza, scrivono i giudici, non era nella condizione di scegliere. Era nella condizione di subire. Ed è su questa linea che cade definitivamente ogni tentativo di riscrivere la notte come una relazione consensuale finita male.
Il tribunale afferma con chiarezza che la violenza di gruppo ha una sua specificità: amplifica la paura, annulla le possibilità di reazione, trasforma l’individuo in bersaglio. È questo che rende il racconto della vittima credibile, solido, coerente con i riscontri. È questo che rende la condanna una condanna motivata, argomentata, non simbolica.
Con il deposito delle motivazioni, la sentenza entra ora in una nuova fase. Ma ciò che resta, al di là dei gradi di giudizio, è il segno lasciato da parole precise. Brutalità. Predazione. Attendibilità. Parole che raccontano non solo un processo, ma un pezzo di realtà che spesso fatica a essere riconosciuta. Qui, nero su bianco, lo è stata.