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Caso Venezuela, tempesta su Hegseth e Trump

- di: Marta Giannoni
 
Caso Venezuela, tempesta su Hegseth e Trump
Caso Venezuela, tempesta su Hegseth e Trump
Dal raid sulla narco-barca alle accuse di crimini di guerra: cosa rischia il capo del Pentagono e perché la Casa Bianca ora trema.

Un attacco americano del 2 settembre contro una nave partita dal Venezuela, sospettata di trasportare droga, è esploso tre mesi dopo come una granata politica a Washington. Al centro del caso c’è il segretario alla Difesa Pete Hegseth, accusato di aver dato – direttamente o indirettamente – un ordine letale: eliminare non solo l’imbarcazione, ma anche i sopravvissuti al primo attacco.

Lo scandalo travolge il Pentagono, investe l’ammiraglio Frank “Mitch” Bradley, riaccende le tensioni con il Venezuela di Nicolás Maduro e mette in difficoltà lo stesso Donald Trump, che ufficialmente difende il suo capo del Pentagono ma in privato, secondo diversi retroscena, comincia a considerarlo un peso politico.

Il raid del 2 settembre: da operazione antidroga a caso politico

Il punto di partenza è apparentemente semplice: il 2 settembre 2025 unità speciali statunitensi colpiscono una barca diretta dal Venezuela, sospettata di essere un “narco-boat” carico di stupefacenti. L’operazione si inserisce nella nuova campagna della Casa Bianca contro il traffico di droga nei Caraibi e nel Pacifico orientale, una serie di raid che, secondo stime di stampa e think tank, hanno già provocato decine di morti e colpito più di venti imbarcazioni sospette.

Tutto rimane oscuro finché, a fine novembre, un’inchiesta del Washington Post svela il dettaglio che incendia il dibattito: dopo il primo attacco, almeno due uomini sarebbero rimasti vivi aggrappati ai resti della nave; un secondo missile li avrebbe colpiti in acqua, per eseguire – secondo fonti citate dal giornale – un ordine orale di Hegseth di “uccidere tutti”.  

Il Pentagono inizialmente minimizza, parlando di un’operazione “cinetica” di contrasto ai narcos e insistendo che il raid fosse in linea con le regole d’ingaggio. Ma il vaso è ormai rotto: giuristi, parlamentari e organizzazioni per i diritti umani sollevano subito una domanda brutale e diretta: si è trattato di un crimine di guerra?

Il giallo del secondo missile e il ruolo dell’ammiraglio Bradley

Per difendersi, la Casa Bianca e Hegseth spostano il focus sull’uomo che quel secondo attacco lo ha materialmente ordinato: l’ammiraglio Frank “Mitch” Bradley, allora alla guida del Joint Special Operations Command (JSOC), oggi promosso al comando di tutto lo United States Special Operations Command, il vertice delle operazioni speciali americane nel mondo. 

La versione ufficiale attuale è netta: Hegseth avrebbe autorizzato la campagna di raid, ma la decisione di lanciare il secondo missile contro la barca venezuelana – e quindi contro i sopravvissuti – sarebbe stata presa da Bradley, che avrebbe agito “entro la sua autorità e nel rispetto della legge”, come ripetono la Casa Bianca e il portavoce del Pentagono. 

Hegseth nega di aver mai pronunciato un ordine esplicito di “non lasciare sopravvissuti” e bolla i racconti del Washington Post come “fake news”, ma ammette che vi sia stato un secondo attacco, rivendicando che la catena di comando operativa dava piena autonomia all’ammiraglio. In un recente incontro di governo ha evocato la “fog of war”, la nebbia della guerra, sostenendo di non aver avuto consapevolezza di eventuali superstiti al momento delle decisioni. 

Giovedì Bradley è atteso davanti alle Commissioni Forze Armate di Senato e Camera, in audizioni che si preannunciano esplosive: i parlamentari vogliono chiarire se ha eseguito un ordine illegale del segretario alla Difesa o se la Casa Bianca lo stia usando come capro espiatorio per salvare il vertice politico del Pentagono.

Crimini di guerra? Cosa dice il diritto internazionale

Sul piano giuridico la questione è brutale: il diritto internazionale umanitario vieta in modo esplicito gli ordini di “non dare quartiere”, cioè gli ordini di non fare prigionieri e di uccidere chi si arrende, così come gli attacchi contro naufraghi e persone fuori combattimento. È un principio inscritto da decenni nelle convenzioni di guerra e ribadito anche nel manuale del Pentagono sul diritto dei conflitti armati. 

Un’analisi di esperti di diritto internazionale e di ex avvocati militari, pubblicata da piattaforme specializzate come Just Security e ripresa dai media americani, è senza giri di parole: se venisse provato che un alto responsabile politico ha ordinato o anche solo tollerato l’uccisione di sopravvissuti incapaci di combattere, si entrerebbe nel campo dei crimini di guerra.  

Non è solo teoria. Il senatore democratico Chris Van Hollen, ex membro della Commissione Forze Armate, ha dichiarato che è “molto possibile” che nel raid del 2 settembre si sia consumato un crimine di guerra, e ha chiesto indagini approfondite e trasparenti.

Il nodo giuridico ruota attorno a tre domande secche:

  • la barca era ancora una minaccia attiva quando è stato ordinato il secondo attacco?
  • i sopravvissuti erano in grado di combattere o erano naufraghi inermi?
  • chi ha dato l’ordine finale di fare fuoco e con quale livello di informazione sullo stato dell’obiettivo?

Se le indagini del Congresso – e quelle interne del Pentagono – dovessero stabilire che la minaccia era cessata, la posizione di Hegseth e di Bradley diventerebbe molto più fragile, anche sul piano penale.

Trump tra difesa pubblica e irritazione privata

In pubblico, Trump continua a offrire a Hegseth un sostegno di facciata. Lo ha definito più volte “uno che sta facendo un grande lavoro”, e quando è esploso il caso ha commentato: “Se Pete dice che non l’ha fatto, io gli credo”, aggiungendo però che avrebbe fatto “tutte le verifiche del caso”. 

Dietro le quinte, però, il quadro è più complicato. Secondo ricostruzioni di stampa, il presidente sarebbe irritato dai continui scandali che circondano il suo segretario alla Difesa: dalla gestione della guerra contro gli Houthi in Yemen, segnata dal caso “Signalgate” (le chat su Signal con piani militari finiti accidentalmente nelle mani di un giornalista), fino all’attuale vicenda della barca venezuelana.

Non aiuta il fatto che, mentre crescono le tensioni con Caracas, l’amministrazione stia valutando mosse più aggressive contro Maduro, anche in chiave di possibile cambio di regime. Le azioni navali contro le barche dei narcos sono diventate così parte di una strategia a doppio volto: guerra alla droga, sì, ma anche pressione militare e politica su un regime nemico. 

Hegseth, un capo del Pentagono già sotto osservazione

Il caso Venezuela non esplode nel vuoto. Hegseth arriva a questo scandalo già indebolito da una lunga serie di episodi che hanno costruito la sua immagine di capo del Pentagono divisivo.

Ex conduttore di Fox News e volto noto della destra trumpiana, Hegseth è l’architetto di una crociata contro ciò che definisce “decadenza woke” nelle forze armate: ha attaccato i programmi di diversità e inclusione, ha messo nel mirino perfino l’associazione degli scout perché ritenuta troppo “genderless” e ha insistito ossessivamente su dieta, taglio di barba e capelli, disciplina fisica dei soldati, spesso più che sulle strategie verso rivali sistemici come la Cina.  

Sul fronte sicurezza, la sua gestione è stata segnata dallo scandalo Signalgate: la fuga di chat su Signal in cui alti funzionari – Hegseth compreso – discutevano piani di guerra in Yemen, con dettagli operativi su obiettivi e tempistiche. In un secondo gruppo di chat, sempre secondo inchieste giornalistiche, il segretario alla Difesa avrebbe condiviso informazioni sensibili persino con la moglie, il fratello e l’avvocato. Tutto questo è ora oggetto di un durissimo rapporto dell’ispettorato del Pentagono atteso a breve.  

Il risultato è che, nelle parole di più osservatori, Hegseth è diventato un “problema politico” strutturale per la Casa Bianca: indispensabile per parlare alla base trumpiana, ma sempre più ingombrante ogni volta che le sue scelte mettono a rischio la credibilità militare e istituzionale degli Stati Uniti.

La guerra alla droga nei Caraibi e il gioco a specchi con Caracas

Il contesto regionale rende il caso ancora più esplosivo. Dall’inizio dell’autunno la campagna americana contro i narcos nel mar dei Caraibi è diventata uno dei fronti più visibili della politica di sicurezza di Trump in America Latina: almeno una ventina di attacchi contro imbarcazioni sospette, oltre 70 morti secondo le ricostruzioni dei media. 

Caracas denuncia questa strategia come un pretesto per la guerra, accusando Washington di voler preparare il terreno per un intervento militare diretto contro il governo Maduro. Gli Stati Uniti, al contrario, sostengono che i trafficanti siano stati classificati come “organizzazioni terroristiche” e che colpirli rientri sia nel diritto all’autodifesa, sia nelle norme internazionali sui conflitti armati.

In mezzo, resta la realtà più scomoda: in mare, a fare le spese di questa strategia, ci sono equipaggi che raramente godono di processi regolari e un’area – quella caraibica – che torna a essere campo di proiezione militare degli Stati Uniti come non accadeva da generazioni.

Il fronte interno: Congresso all’attacco, generali perplessi

Di fronte alle rivelazioni sul secondo missile contro i naufraghi, il Congresso non è rimasto a guardare. I democratici parlano apertamente di “possibile crimine di guerra” e chiedono le dimissioni di Hegseth; alcuni repubblicani – in particolare quelli con esperienza militare – si dicono inquieti dalla prospettiva che un ordine del genere sia stato impartito o anche solo tollerato al vertice del Pentagono. 

Non meno importanti sono i malumori interni all’apparato di sicurezza nazionale. Secondo ricostruzioni di testate come Politico e The Guardian, diversi consiglieri di Trump rabbrividiscono davanti alla retorica di Hegseth sulla “letalità” da ripristinare a tutti i costi e all’idea che il capo del Pentagono si concentri più sulle battaglie culturali che sulle complesse sfide strategiche – dall’Ucraina alla Cina, dal Medio Oriente al nuovo fronte latinoamericano.  

Nelle prossime settimane, le audizioni di Bradley, dei legali del Pentagono e dei responsabili dell’intelligence chiariranno un punto decisivo: se il comando politico abbia incoraggiato una cultura dell’escalation a tutti i costi, in cui l’eliminazione fisica del nemico – anche quando non è più in grado di combattere – diventa la scorciatoia preferita rispetto a arresti, raccolta di prove, processi e diplomazia.

Cosa rischiano Hegseth, Bradley e la stessa Casa Bianca

Sul piano politico, Hegseth è già oggi seriamente indebolito: se le indagini confermeranno che un ordine illegale è partito dal suo ufficio, la sua permanenza al Pentagono diventerà difficilmente sostenibile. Trump, da parte sua, dovrà decidere se sacrificare un alleato fedelissimo per cercare di frenare la tempesta o se trasformare anche questo scandalo in uno scontro frontale con Congresso, media e apparati di sicurezza.

Per Bradley la posta è altrettanto alta: l’ammiraglio, oggi al vertice delle forze speciali, può uscire dalla vicenda come capro espiatorio o come esecutore fedele di un ordine politico. In entrambi i casi, la sua testimonianza di fronte ai parlamentari farà scuola nei manuali militari su cosa significhi – in concreto – dire di no a un ordine che si percepisce come illegale.

La vera questione di fondo va oltre i singoli nomi: riguarda il modo in cui gli Stati Uniti scelgono di condurre la loro “guerra alla droga”. Se prevale la logica dell’“uccideteli tutti”, il confine tra operazioni di polizia internazionale, controterrorismo e guerra vera e propria rischia di svanire. E, con esso, rischiano di svanire anche le tutele che il diritto internazionale ha impiegato un secolo a costruire.

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