Il 31 ottobre 2024 esce nelle sale italiane "Berlinguer – La grande ambizione", il film diretto da Andrea Segre in cui Elio Germano presta volto e voce al segretario del Partito Comunista Italiano. È un’opera che ricostruisce con rigore politico e slancio narrativo una delle figure più carismatiche della sinistra italiana, ma che diventa anche, attraverso la performance del suo protagonista, una dichiarazione d’intenti. Il pubblico risponde con entusiasmo: il film incassa oltre 3,4 milioni di euro nei primi mesi, posizionandosi tra i titoli italiani più visti della stagione.
Elio Germano, “Berlinguer” e la battaglia per la cultura: arte, parole e dignità in scena
Ai David di Donatello 2025, Germano sale sul palco per ritirare il premio come miglior attore protagonista: è la sua sesta statuetta. Lo ha già vinto per Mio fratello è figlio unico, La nostra vita, Il giovane favoloso, Volevo nascondermi, e ora per Berlinguer – La grande ambizione. Non si limita a ringraziare. “Il cinema è davvero in crisi — dichiara con voce ferma — e riteniamo che il Ministero della Cultura abbia una grossa responsabilità in questo”. Parole che non sorprendono chi conosce l’attore, da sempre impegnato nella difesa della dignità culturale e lavorativa del settore. Ma il contesto — una cerimonia ufficiale — e il bersaglio — il governo in carica — accendono lo scontro.
La replica istituzionale e la tensione che cresce
Il ministro della Cultura Alessandro Giuli non attende. In un intervento pubblico a Firenze, lo attacca direttamente: “C’è una minoranza rumorosa che si impadronisce perfino dei più alti luoghi delle istituzioni italiane, il Quirinale, per cianciare in solitudine. Mi riferisco a Elio Germano”. È una risposta dura, personalizzata, che alza il livello dello scontro. Giuli difende la riforma del tax credit per il cinema, sostenendo che sia stata richiesta dagli operatori del settore per eliminare sprechi e rendite. Ma la sua affermazione finale — “Stiamo governando la cultura veramente da patrioti” — segna uno spartiacque.
Germano non si tira indietro
Intervenendo pochi giorni dopo al Teatro Franco Parenti di Milano, Germano ribadisce: “È inquietante che un ministro attacchi un cittadino con nome e cognome. Se non sa che ci sono tecnici, artisti e operatori del cinema senza lavoro, significa che è lui a cianciare”. Nessun tono aggressivo, nessuna ritrattazione. Solo la consapevolezza che l’arte è anche responsabilità. È una presa di parola che travalica i confini dello spettacolo e richiama l’opinione pubblica a una riflessione più ampia sul ruolo della cultura in un Paese democratico.
Una carriera che parla chiaro
Elio Germano è nato a Roma nel 1980. Attore precoce e poliedrico, ha vinto il Prix d'interprétation masculine a Cannes per La nostra vita nel 2010, l’Orso d’argento al Festival di Berlino per Volevo nascondermi nel 2020 e sei David di Donatello. Ma la sua attività non si esaurisce sullo schermo. Nel 2010 ha cofondato insieme a Neri Marcorè e Claudio Santamaria l’associazione Artisti 7607, che tutela i diritti degli interpreti audiovisivi. Il gruppo è stato ascoltato anche in Parlamento, in particolare dalla Commissione Istruzione pubblica e beni culturali del Senato, per affrontare il tema della gestione trasparente ed equa dei diritti connessi al lavoro artistico. Una militanza civile e culturale che si affianca alla carriera attoriale, senza mai farsi accessoria.
Quando il cinema non è intrattenimento, ma coscienza
Lo scontro con il ministro Giuli è il sintomo di una frattura più ampia tra istituzioni e operatori culturali. Da una parte chi vorrebbe una cultura ordinata, celebrativa, funzionale a un’identità nazionale compatta. Dall’altra chi la vede come spazio critico, come interrogazione, come rottura necessaria. In mezzo, un Paese che ancora fatica a capire che il cinema — come ogni arte — non è solo industria, ma discorso, linguaggio, identità in divenire.
Chi ascolta quando l’arte alza la voce
Questo conflitto non è solo una polemica fra un ministro e un attore. È il volto di una domanda più ampia: chi ha diritto di raccontare, chi può ancora disturbare, chi ha voce in una società sempre più selettiva. Non basterà un premio per sanare le ferite del settore culturale, e nemmeno una polemica per cambiarne le sorti. Ma ogni volta che un artista prende la parola, ogni volta che l’arte alza la voce, c’è chi si affretta a zittirla. E il compito — nostro — resta sempre lo stesso: restare in ascolto. Anche — e soprattutto — quando le parole fanno rumore.