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Tragedia Eni-Calenzano: "Non si può morire lavorando", rabbia e dolore dopo l’esplosione

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Tragedia Eni-Calenzano: 'Non si può morire lavorando', rabbia e dolore dopo l’esplosione
Ci sono guerre silenziose che non fanno rumore fino a quando esplodono, letteralmente. E allora ci troviamo a contare i morti, a scandagliare le macerie, a raccogliere la rabbia di chi rimane. È successo ancora. Lunedì 9 dicembre, a Calenzano, quattro vite si sono spezzate e altre quattordici sono sospese tra il dolore e la speranza. Un’esplosione devastante ha scosso il deposito Eni, ferendo non solo i corpi ma la coscienza di un Paese che troppo spesso si ricorda dei lavoratori solo quando il peggio è già accaduto.

Tragedia Eni-Calenzano: "Non si può morire lavorando"

Stamattina, davanti alla raffineria Eni di Livorno, si sono ritrovati almeno cinquecento operai in un presidio di due ore, promosso dal coordinamento di Cgil, Cisl e Uil delle ditte dell’indotto. Con il freddo delle prime ore del mattino e il calore della rabbia che monta, quei lavoratori hanno stretto le mani e gli sguardi, consapevoli di condividere un destino precario. “Non si può morire lavorando” hanno gridato. Un grido strozzato dal silenzio delle istituzioni, troppo spesso pronte a intervenire solo per tamponare le emergenze.

Le parole del presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, intervistato stamani su Rai 3, suonano come un’ammissione di colpevolezza collettiva. Il deposito Eni, ha detto, “è sotto normativa Seveso, a rischio rilevante”, ma la sua collocazione tra Firenze e Prato, una delle aree più densamente popolate d’Italia, non è più “appropriata”. Una dichiarazione che aggiunge il sale alle ferite: lo sapevamo. Lo sapevano tutti. Quando il deposito fu costruito, era circondato da campi e collegamenti strategici con l’autostrada. Oggi, quell’area è diventata un mosaico di industrie e abitazioni, e il rischio non è più tollerabile. Ma chi si assumerà la responsabilità di dire basta, prima che accada di nuovo?

Le immagini di quella colonna di fumo nero, che ieri si alzava spettrale sopra Calenzano, restano impresse negli occhi di chi guarda al futuro con paura. E i numeri, drammatici, fanno il resto: quattro morti, un disperso, due feriti in condizioni critiche al centro grandi ustionati di Cisanello. Gli altri, ricoverati a Careggi e Prato, sono fuori pericolo, ma segneranno sulla pelle il ricordo di quel lunedì di fuoco.

“È una guerra silenziosa”, dicono i sindacati. E hanno ragione. Una guerra combattuta in prima linea da lavoratori che rischiano la vita ogni giorno per portare a casa uno stipendio, in un sistema che antepone il profitto alla sicurezza. A Livorno, davanti ai cancelli della raffineria, si parla di famiglia. Di vite spezzate che potevano essere le loro. Di un’industria che non protegge chi la tiene in piedi.

E mentre le indagini della Procura di Prato cercano di fare luce su un’esplosione che forse poteva essere evitata, la politica già vacilla tra promesse e mezze verità. Giani parla di “revisionare le attività svolte” e di una collocazione ormai inadeguata. Parole che suonano come un epitaffio su una tragedia che poteva essere prevenuta.

Ma la domanda resta sospesa, pesante come il fumo che si disperde nel cielo di Calenzano: quanto ancora dovremo aspettare per cambiare davvero? E soprattutto, quante vite dovremo perdere prima di capire che lavorare non può, non deve, essere sinonimo di morire?
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