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Ex Ilva: il ritorno dello Stato padrone

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Ex Ilva: il ritorno dello Stato padrone

Con il decreto approvato ieri in Consiglio dei ministri, che stanzia 200 milioni per salvare l’ex Ilva di Taranto e proroga la cassa integrazione fino al 2027, il governo Meloni ha varcato una soglia simbolica e materiale: il ritorno pieno dello Stato nell’economia produttiva.

Ex Ilva: il ritorno dello Stato padrone

Non più solo regolatore o garante, ma attore diretto, investitore pubblico, gestore dell’emergenza industriale con strumenti di spesa ordinaria. Una scelta che rompe con decenni di ritrosia a intervenire nei settori strategici e che segna un’inversione culturale rispetto alla stagione delle privatizzazioni degli anni Novanta.

Sovranismo economico tra necessità e ideologia
L’intervento su Taranto risponde a un’urgenza drammatica: evitare il collasso occupazionale e produttivo di uno dei più grandi complessi siderurgici d’Europa, con oltre 10.000 addetti diretti e un indotto che coinvolge altre 20.000 persone. Ma al di là del caso specifico, il provvedimento rappresenta un tassello di una strategia più ampia: il tentativo del governo di costruire una nuova sovranità economica nazionale, in un contesto in cui la globalizzazione mostra crepe e l’autonomia strategica diventa valore politico. La siderurgia torna così a essere questione di interesse nazionale, come l’energia o la difesa.

I conti pubblici sotto pressione crescente
Tuttavia, lo Stato imprenditore ha un costo, e il suo ritorno avviene in un momento delicato per i conti pubblici. I 200 milioni stanziati non erano previsti nei documenti programmatici trasmessi a Bruxelles e si aggiungono a una lunga lista di impegni fuori bilancio: dal Superbonus agli interventi sul caro energia, dai fondi Pnrr da riconvertire agli incentivi al lavoro. La proroga della cassa integrazione fino al 2027 implica oneri strutturali su un orizzonte di legislatura e blocca risorse che altrimenti sarebbero destinate a misure universali. La legge di bilancio autunnale dovrà fare i conti con un quadro macroeconomico più incerto, e le stime del deficit — già vicino al 4,5% — rischiano di essere riviste al rialzo.

Il ruolo dell’industria nella nuova strategia del governo
Il decreto ex Ilva non è un caso isolato. Da mesi il governo Meloni insiste sulla necessità di riportare sotto regia pubblica una parte delle filiere strategiche: acciaio, microchip, logistica portuale, farmaceutica, agroindustria. L’idea, mutuata in parte dal modello francese e in parte dalla dottrina Trump-Biden sull’industria americana, è che l’intervento pubblico possa colmare i vuoti lasciati dal mercato, rilanciare la capacità produttiva e proteggere l’economia nazionale da shock esterni. Ma l’Italia parte da una posizione fragile: debito al 137% del Pil, crescita attesa sotto l’1% nel 2025 e una produttività stagnante da vent’anni. Per reggere una politica industriale espansiva, serve una base fiscale stabile, cosa che il Paese — tra evasione, flat tax e spese obbligate — fatica a costruire.

Europa divisa tra regole e flessibilità
Il ritorno dello Stato in fabbrica riapre anche il confronto con Bruxelles. Le nuove regole del Patto di Stabilità, negoziate faticosamente nei mesi scorsi, prevedono margini di flessibilità per spese strategiche, ma richiedono piani credibili di rientro dal deficit. L’Italia scommette sulla possibilità di trattare caso per caso, invocando la strategicità degli interventi e l’eccezionalità del contesto globale. Ma il rischio è che le aperture ottenute sul Pnrr si chiudano se la traiettoria della spesa appare poco sostenibile. A Bruxelles c’è già chi guarda con diffidenza alla somma di spese straordinarie e condoni fiscali, che rendono più complessa la credibilità della manovra italiana. Il decreto ex Ilva, in questo senso, sarà un test anche per la tenuta della linea negoziale del governo con l’Europa.

Il Mezzogiorno tra occasione e trappola
La scelta di concentrare l’intervento su Taranto riporta il Sud al centro del discorso economico, ma rischia anche di riproporre vecchi schemi. Da un lato, la fabbrica come presidio sociale da difendere a ogni costo; dall’altro, la mancata trasformazione dell’assistenza in sviluppo. La nomina di Luigi Sbarra a sottosegretario con delega al Sud rafforza la visione sindacalista dell’intervento pubblico, ma lascia aperti interrogativi sull’effettiva capacità di attrarre investimenti privati. Se il salvataggio ex Ilva si risolve in una nuova stagione di ammortizzatori sociali, il rischio è di ripetere il ciclo degli anni Duemila: spesa corrente elevata, occupazione stagnante, competitività ferma.

Lo Stato imprenditore tra mito e necessità
Il decreto approvato ieri mette fine, almeno simbolicamente, a una stagione di astinenza dall’intervento diretto dello Stato. Ma per essere più di un’operazione di contenimento sociale, la misura dovrà trasformarsi in un progetto industriale vero, capace di ridefinire il rapporto tra economia pubblica e sviluppo. Non basta spendere per evitare il crollo: serve un disegno che traduca l’intervento in produttività, innovazione e tenuta finanziaria. L’Ilva non è solo un impianto: è lo specchio di un Paese che deve decidere se vuole davvero tornare a essere una potenza manifatturiera o se preferisce limitarsi a gestire la crisi.

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