L’operazione di vendita dell’ex Ilva di Taranto si rivela, ancora una volta, un’impresa pressoché irrealizzabile. A dieci anni dal sequestro degli impianti dell’area a caldo per danno ambientale e dopo una lunga sequenza di gestioni fallimentari, lo stabilimento siderurgico più grande d’Italia è diventato un fardello troppo pesante per chiunque voglia o possa acquisirlo.
Vendere l’ex Ilva è quasi impossibile, tra disastro ambientale e voragine economica
I governi che si sono succeduti hanno tentato in vari modi di restituire un futuro al polo industriale, ma il tempo e la giustizia hanno eroso qualsiasi prospettiva di rilancio. Anche chi, sulla carta, potrebbe avere le risorse per rilevarlo, si trova davanti a un’eredità tossica che va ben oltre l’aspetto economico.
L’impronta della magistratura e la paralisi industriale
Fin dal 2012 la magistratura ha imposto il sequestro degli impianti più critici dell’acciaieria, evidenziando un nesso diretto tra le attività industriali e il disastro ambientale che ha colpito Taranto e le sue periferie. Le indagini, le condanne e le misure cautelari non si sono mai interrotte del tutto, segnando profondamente la vita produttiva dell’impianto. I vincoli imposti dall’Autorizzazione Integrata Ambientale rendono obbligatorie costose opere di risanamento, il cui iter è lungo, complicato e sottoposto a verifiche continue. Senza contare che molti degli interventi promessi non sono mai stati completati. Gli impianti funzionano oggi a capacità ridotta, mentre le perdite annue – stimate tra 500 e 800 milioni di euro – disegnano un quadro fallimentare e scoraggiante per qualsiasi potenziale acquirente.
La ferita ecologica e il rischio sanitario
L’ex Ilva non è soltanto un caso industriale, ma una questione ambientale e sanitaria aperta. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto l’Italia colpevole di non aver protetto la popolazione di Taranto dagli effetti nocivi delle emissioni dell’impianto. Il quartiere Tamburi continua a vivere sotto una cappa di polveri sottili e sostanze cancerogene, con un’incidenza anomala di malattie respiratorie e oncologiche. Le bonifiche non sono mai state realmente avviate su larga scala e la cittadinanza guarda con diffidenza ogni nuovo annuncio di rilancio. Chi compra la fabbrica si troverebbe immediatamente al centro di un contenzioso morale e civile, prima ancora che economico.
Gli interessi in campo e il vuoto strategico
Nessun soggetto industriale ha finora avanzato un’offerta concreta. Il governo, pur dichiarandosi pronto a valutare proposte, non ha individuato una strategia chiara per rendere appetibile il complesso. I commissari straordinari continuano a gestire un impianto in perdita, senza una vera prospettiva di investimento. I sindacati temono la perdita definitiva dei posti di lavoro e chiedono soluzioni urgenti, mentre le associazioni ambientaliste invocano la chiusura totale delle aree più inquinanti. Il rischio è che, in assenza di una volontà politica netta, l’ex Ilva continui a trascinarsi tra cassa integrazione e inattività, senza uscire mai dal limbo.
Il paradosso dell’acciaio e l’assenza di volontà
In un momento in cui l’acciaio resta un asset strategico a livello europeo, l’Italia si trova con un impianto potenzialmente decisivo che però nessuno vuole o può utilizzare. Il paradosso è evidente: mentre altrove si investe nella riconversione green delle industrie pesanti, a Taranto si fatica persino a tenere accesi i forni. La transizione ecologica, in questo contesto, resta un’ipotesi lontana, frenata da un debito ambientale che si somma al debito finanziario. Nessun imprenditore appare disposto a rilevare uno stabilimento da risanare completamente, a proprie spese, in un territorio segnato da vent’anni di sfiducia, rabbia e promesse mancate. Anche per questo, vendere l’ex Ilva non è solo un problema industriale, ma un dramma nazionale irrisolto.