Almeno 45 persone sono rimaste uccise a Gaza nella sola giornata di ieri. La notizia, riportata dai principali media arabi e internazionali, è l’ennesima tappa di una contabilità tragica che si rinnova quotidianamente nella Striscia, dove la guerra continua a consumare vite civili senza che si intraveda una fine. I raid israeliani si sono concentrati su diversi obiettivi nel centro e nel sud del territorio, tra Rafah, Khan Younis e Deir al-Balah. Secondo fonti ospedaliere, tra le vittime vi sarebbero anche bambini e donne. Non si tratta più di episodi isolati: la guerra è tornata ad essere una condizione permanente.
Gaza, altri 45 morti in un giorno: la guerra che non ha tregua
L’operazione a Rafah e la resistenza di Hamas Israele ha intensificato le operazioni a Rafah, città al confine con l’Egitto considerata l’ultimo bastione strategico di Hamas. L’esercito ha dichiarato di aver colpito “infrastrutture militari” e “unità operative” del gruppo islamista. Hamas, dal canto suo, continua a rivendicare attacchi contro le truppe israeliane, dichiarando di agire in difesa della popolazione civile. In mezzo, la popolazione, costretta a fuggire, a spostarsi continuamente da una zona all’altra, con gli sfollati che superano ormai il milione e mezzo. I corridoi umanitari sono intermittenti, le forniture scarse, l’accesso ai beni essenziali sempre più ridotto.
Il prezzo pagato dai civili Gaza è oggi il teatro più drammatico del fallimento collettivo della diplomazia internazionale. I 45 morti di ieri si sommano alle migliaia già decedute da ottobre, quando il conflitto è ripreso con nuova intensità dopo l’attacco di Hamas contro Israele. Ospedali al collasso, scuole distrutte, interi quartieri rasi al suolo: la vita quotidiana nella Striscia è ridotta alla sopravvivenza. Le agenzie umanitarie dell’ONU parlano di catastrofe in corso, ma gli appelli si perdono nel rumore del conflitto. Ogni cifra, ogni aggiornamento, è insieme documento e condanna: racconta ciò che succede e accusa ciò che non si fa per evitarlo.
Le voci che invocano il cessate il fuoco Da settimane si susseguono gli appelli internazionali per una tregua. L’Egitto, il Qatar, le Nazioni Unite, l’Unione Europea: tutti chiedono una de-escalation, tutti temono un’escalation. Ma i negoziati restano impantanati nelle accuse reciproche, nei veti incrociati, nella mancanza di fiducia. Gli Stati Uniti, che finora hanno sostenuto Israele, iniziano a inviare segnali di disagio, ma senza modificare realmente gli equilibri sul campo. La proposta di tregua avanzata da Washington per Gaza resta in stallo, mentre le notizie che arrivano dalla Striscia sembrano testimoniare l’irrilevanza crescente della diplomazia di fronte al linguaggio delle armi.
Una guerra dimenticata fino alla prossima esplosione Il rischio, ormai evidente, è che la guerra di Gaza diventi parte del paesaggio, invisibile proprio perché quotidiana. L’orrore, quando è ripetuto, perde forza. Ma resta. E pesa. Su ogni bambino che cresce sotto i droni, su ogni madre che non ha più una casa, su ogni futuro bruciato prima di cominciare. La guerra a Gaza non è più emergenza: è sistema. E questo, più di tutto, interroga la comunità internazionale, le sue parole svuotate, le sue reazioni troppo lente, le sue strategie sempre rinviate. I 45 morti di ieri sono un’altra pagina scritta col sangue. Ma quante ne serviranno ancora prima che qualcuno sfogli davvero il libro?