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Perché i giovani oggi si sentono sempre fuori tempo massimo

- di: Bruno Coletta
 
Perché i giovani oggi si sentono sempre fuori tempo massimo
Tra social, paragoni tossici e lavoretti precari, una generazione intera si sente “in ritardo”. Ma è davvero così?
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La nuova pressione non è lavorare troppo. È sentirsi sempre in ritardo
“Mi sembra di essere rimasto indietro. Tutti vanno avanti, io no.” È il mantra sommerso che tormenta milioni di giovani adulti. Non si parla più soltanto di crisi economica o disoccupazione giovanile, ma di qualcosa di più sottile e corrosivo: la sensazione di non essere abbastanza, di non arrivare mai in tempo.
In rete questa condizione ha un nome: lateness anxiety. Un termine che descrive l’angoscia cronica di chi si percepisce fuori tempo massimo per avere successo, stabilità, una relazione seria o, semplicemente, una vita “normale”.

Social, paragoni e aspettative irreali

Il meccanismo è potente e perverso. Scorri i social e vedi un coetaneo che compra casa, un’altra che lancia un brand, qualcuno che è già diventato manager o lavora all’estero. Tutti sembrano avercela fatta. E allora scatta il confronto automatico, tossico, devastante.
“I social sono una vetrina distorta della realtà. Si vedono solo i picchi positivi, mai le fatiche o le cadute”, spiega Francesco Costa, psicologo clinico a Milano, che lavora con molti under 35.Ma il cervello non distingue tra narrazione e verità. Assorbe, confronta e giudica”.
Un report 2024 di Common Sense Media ha mostrato che il 76% dei giovani tra i 18 e i 29 anni prova disagio o ansia dopo aver navigato su Instagram o TikTok per più di 30 minuti. E tra le cause principali c’è proprio il confronto con i coetanei.

Italia, paese per giovani “a scadenza”
In Italia il fenomeno è ancora più acuto. Secondo l’Istat, l’età media per l’ingresso stabile nel mondo del lavoro è 33 anni. Eppure le aspettative restano tarate su un modello ottocentesco: laurea a 23, lavoro fisso a 25, casa a 30.
Il paradosso è che il contesto oggettivo nega la possibilità di rispettare questi tempi, ma la narrazione culturale continua a imporli. “È come correre una maratona con lo zaino pieno di sassi e poi colpevolizzarsi perché si arriva ultimi”, dice Chiara, 29 anni, laureata in Scienze politiche e ancora in cerca di un impiego stabile.
Nel frattempo, si moltiplicano i “lavoretti”, il part-time involontario, i contratti a termine. Secondo il rapporto Censis 2024, il 51% dei giovani tra i 25 e i 34 anni si dichiara sottoccupato rispetto alle proprie competenze”. E il 37% pensa che “non ce la farà mai a costruirsi una vita autonoma”.

Crisi dei 25 (e dei 30): quando l’ansia ha un’età
C’è un passaggio psicologico, tra i 25 e i 35 anni, in cui le aspettative sul futuro iniziano a fare i conti con la realtà. Gli americani la chiamano quarter-life crisis, la crisi del quarto di vita. Ma oggi si sta anticipando. A 22 anni molti si sentono già “fuori tempo”.
“Quello che manca è una narrazione collettiva alternativa”, osserva Giovanni Grandi, filosofo e docente a Padova. “Abbiamo interiorizzato un modello di efficienza e successo basato sulla rapidità. Ma esistono strade lente, complesse, altrettanto valide”.

La contro-narrazione parte da TikTok: “Non sei in ritardo su niente”
A sorpresa, è proprio TikTok — il social più veloce e performante — a ospitare la contro-narrazione. Video virali in cui ragazze e ragazzi raccontano di aver cambiato facoltà a 27 anni, di aver fallito un progetto, di aver trovato la propria vocazione solo dopo i 30. E la community reagisce con solidarietà, non con giudizio.
Alcuni creator hanno fatto della “slow success” un brand personale. È il caso di Erica Berry, americana di 32 anni, che ha fondato il canale @LateBloomersClub, con 1,5 milioni di follower. Il suo motto: “Non devi fare tutto entro i 30. Puoi sbocciare anche dopo. Anzi, forse è meglio.”

Flessibilità o precarietà? Il grande equivoco
“Flessibilità” è diventata una parola magica nel lessico aziendale. Ma per molti giovani è sinonimo di precarietà permanente. Un tempo il lavoro era un’àncora. Oggi è un’onda da cavalcare — sempre con il rischio di cadere.
“Lavoro su progetto da anni, ma non posso pianificare nulla: né un mutuo, né un figlio, né un viaggio a lungo termine”, dice Dario, 34 anni, informatico freelance. “E quando parlo con chi ha un contratto a tempo indeterminato, mi sento un fallito”.
Il sistema attuale — tra partite IVA, contratti a chiamata, finte collaborazioni autonome — produce insicurezza cronica. E questo si riflette anche sulla salute mentale: l’OMS ha rilevato un aumento del 30% di disturbi d’ansia tra i giovani italiani nel triennio 2021-2024.

Il successo lento è ancora successo
Ma c’è speranza. E parte da un’idea semplice: il successo non è lineare, né universale. “Ogni persona ha una traiettoria diversa, e ogni traiettoria è legittima”, spiega Francesca Corrado, economista e fondatrice della Scuola del fallimento, che organizza workshop per giovani in tutta Italia.
E aggiunge: “Chi ha bisogno di tempo non è sbagliato. È umano.”
Stanno nascendo iniziative che aiutano a riscrivere la narrativa: festival sul “fallimento creativo”, podcast su carriere atipiche, community per chi cambia vita dopo i 30. Perché a ben vedere, non c’è nulla di più rivoluzionario che rallentare in un mondo che corre.
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Conclusione: Fermarsi, ripartire, sbagliare
Il mito del “tempo sprecato” è una trappola culturale. Nessun passo indietro è inutile, nessuna deviazione è tempo perso. La vera libertà, per la generazione iperconnessa, è potersi dare un’altra possibilità. O anche dieci.
Come diceva John Lennon, “La vita è ciò che ti accade mentre sei impegnato a fare altri progetti”. E se questa generazione imparasse a crederci davvero, forse smetterebbe di correre. E comincerebbe a vivere.
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Call to action finale
Hai mai provato l’ansia di essere “in ritardo”? Raccontacelo nei commenti o condividi questo articolo con qualcuno che ha bisogno di sentirselo dire: non sei fuori tempo massimo. Stai solo seguendo il tuo ritmo.

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