Giovani: ansia e autostima, la generazione iperconnessa in crisi
- di: Marta Giannoni

Tra social, filtri e FOMO: perché i giovani non si sentono mai abbastanza.
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La solitudine dei sempre connessi
Mai così connessi, mai così soli. La Generazione Z – quella nata tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2010 – è cresciuta respirando internet, navigando tra app e notifiche come fosse il suo habitat naturale. Eppure, qualcosa si è rotto. I dati sono allarmanti: secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, più di un adolescente su sette soffre oggi di disturbi mentali diagnosticabili, con un’impennata post-pandemia che ha travolto scuole, famiglie e servizi sanitari. L’ansia sociale, la depressione, i disturbi dell’alimentazione e dell’autostima sono in aumento. In parallelo, cresce l’uso compulsivo di social media, spesso senza che i giovani stessi sappiano più distinguere tra realtà e immagine.
“L’iperconnessione ha frantumato il confine tra l’io e il mondo”, spiega la psicoterapeuta Chiara De Santi, specializzata in adolescenti digitali. “Il problema non è internet in sé, ma il modo in cui i ragazzi vengono lasciati soli a cercare lì dentro il senso di sé”.
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L’autostima ai tempi dei like
Una foto, un filtro, un numero: basta questo per far precipitare l’umore. Il bisogno di approvazione online è diventato una dipendenza silenziosa. Un’inchiesta di Cosmopolitan Italia rilanciata da Sky TG24, ha mostrato che il 94% della Gen Z ha sofferto o soffre tuttora di ansia legata alla propria immagine digitale. Il 57% ammette di modificare abitualmente le foto prima di pubblicarle. E quando i like non arrivano, o non sono “abbastanza”, il messaggio che arriva al cervello è chiaro: “Non vali”.
Questo meccanismo agisce in profondità. “I social funzionano come slot machine affettive”, ha dichiarato il neuroscienziato Nicola Ferrari dell’Università di Padova. “Il like è un rinforzo positivo imprevedibile: attiva le stesse aree cerebrali della ricompensa del gioco d’azzardo. Ma quando manca, scatta la frustrazione e si abbassa l’autostima”.
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FOMO, FOBO, doomscrolling: i nuovi incubi digitali
A rendere più tossico il rapporto con lo smartphone sono le nuove forme di ansia generate dalla connessione costante. La FOMO (Fear of Missing Out) è forse la più nota: la paura di perdersi qualcosa di importante, di non essere “dove si deve essere”. Da qui la necessità compulsiva di aggiornare feed, controllare storie, rincorrere esperienze altrui. Accanto ad essa cresce anche la FOBO (Fear of Better Options): l’ansia da scelta, paralizzante, tipica di chi vive tra mille possibilità e non riesce mai a decidere.
Ma c’è di peggio: il doomscrolling, cioè l’atto di scorrere ossessivamente notizie negative sui social o nei feed personalizzati. Secondo uno studio pubblicato su Nature Human Behaviour (ottobre 2024), chi soffre di ansia o depressione trascorre circa 50 minuti in più al giorno sui social rispetto ai coetanei mentalmente sani, aumentando il rischio di isolamento e peggioramento dei sintomi.
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Chi ci guadagna? Gli algoritmi, non i ragazzi
Dietro il disagio giovanile c’è anche una dimensione sistemica: gli algoritmi delle piattaforme non sono progettati per il benessere degli utenti, ma per trattenerli il più a lungo possibile, mostrando contenuti polarizzanti, idealizzati o disturbanti. TikTok, Instagram e YouTube – tre delle app più utilizzate dagli under 25 – operano con logiche di engagement che spesso premiano l’eccesso, la perfezione irraggiungibile o la narrazione estrema del sé.
“La salute mentale dei giovani non è compatibile con un ambiente digitale costruito per scatenare confronto, ansia e dipendenza”, ha dichiarato il sociologo americano Jonathan Haidt al The Guardian, rilanciando il suo appello per una “nuova ecologia digitale”. Secondo Haidt, andrebbero introdotti limiti di età più severi, trasparenza algoritmica e forme di compensazione psicologica dentro le piattaforme.
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I segnali d’allarme (e chi può intercettarli)
Il disagio non sempre si manifesta in modo plateale. Anzi, spesso si annida nei comportamenti quotidiani: insonnia, isolamento, irritabilità, cambi improvvisi di umore. I docenti e i genitori, però, non hanno sempre gli strumenti per riconoscere questi segnali. Un report del Ministero dell’Istruzione (aprile 2025) mostra che solo il 12% delle scuole secondarie ha uno psicologo interno disponibile per tutto l’anno.
C’è chi cerca di reagire. Iniziative come il progetto “Mente Libera” dell’Università di Bologna, lanciato nel gennaio 2025, offrono sportelli gratuiti, gruppi di auto-mutuo-aiuto e corsi di “igiene digitale” per ridurre il tempo passivo online. Il progetto è stato accolto con entusiasmo: oltre 3.000 iscritti nel primo trimestre.
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Cosa fare? Verso una nuova alfabetizzazione emotiva
Il primo passo per invertire la rotta è riconoscere che la salute mentale è una priorità collettiva, non una questione individuale. Servono politiche pubbliche, investimenti nelle scuole, ma anche un cambiamento culturale: insegnare ai giovani a distinguere ciò che vedono online da ciò che conta davvero nella vita reale.
“I ragazzi non hanno bisogno di essere disconnessi, ma di essere accompagnati”, afferma la psicologa Francesca Bellati, “Educare al digitale significa educare all’identità”.
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Generazione Z, connessione non è relazione
La Generazione Z ha davanti una sfida titanica: riscoprire la connessione con sé stessi in un mondo che li vuole sempre altrove. E questa sfida riguarda tutti noi, non solo loro. Perché una società che ignora il benessere mentale dei suoi giovani è una società destinata a rompersi. E non ci sarà algoritmo che la ripari.