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Giovani italiani, chi ha spento il futuro?

- di: Bruno Coletta
 
Giovani italiani, chi ha spento il futuro?
Giovani italiani in fuga: tra affitti insostenibili, salari da fame e sogni oltreconfine.
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I numeri di una fuga silenziosa
Non si tratta più di una moda, né di un’avventura da Erasmus: oggi emigrare è una scelta di sopravvivenza. Nel 2024 sono partiti in quasi 200.000, un record storico, e il 2025 è iniziato con un trend analogo. Più della metà sono giovani sotto i 35 anni, con una percentuale crescente di neolaureati. In molti lasciano alle spalle famiglie, affetti, perfino carriere già avviate. Ma non il senso di impotenza: quello, se lo portano dietro.
Secondo il più recente Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes (ottobre 2024), i cittadini italiani residenti all’estero sono saliti a 6,1 milioni: +91% rispetto al 2006. Di questi, un numero crescente non ha mai messo piede fuori dal Paese per piacere, ma solo per lavoro. “Non andiamo via per conoscere il mondo, ma perché qui non possiamo permetterci di viverlo”, dice Chiara, 28 anni, da Barcellona.
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Affitti e stipendi: il presente che strangola
Secondo i dati Istat e Bankitalia, l’affitto di una stanza singola in una città universitaria supera spesso i 500 euro mensili. Se si considera che il salario medio netto under 30 in Italia è di circa 1.200 euro (quando c’è un contratto), l’equazione è devastante: tra bollette, trasporti e spesa, resta poco o nulla. La povertà non è più solo assenza di reddito, ma assenza di orizzonte.
Nel confronto europeo, l’Italia è in coda per salari e in testa per spesa abitativa giovanile. A Berlino, ad esempio, gli under 35 spendono in media il 27% del loro stipendio in affitto. A Milano, la quota supera il 45%. A Roma si sfiorano punte del 50% in alcuni quartieri centrali. E il mercato immobiliare continua a crescere, ma senza che i redditi seguano lo stesso passo.
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Il lavoro c’è. Ma è povero
La retorica del “i giovani non vogliono lavorare” si scontra con una realtà opposta: moltissimi lavorano, ma non ce la fanno. Si chiama “in-work poverty” e riguarda oggi oltre l’11% dei lavoratori tra i 16 e i 29 anni. Significa avere un impiego e restare comunque al di sotto della soglia di povertà relativa. È il caso di Matteo, 26 anni, cameriere a Firenze con 1.000 euro al mese e contratto a chiamata: “Se sto male, non guadagno. Se sciopero, rischio il posto. Ma se resto fermo, mi spengo”.
Secondo uno studio della Fondazione Adapt, il 68% dei giovani impiegati in Italia lavora in settori a bassa produttività e senza prospettive di carriera. L’apprendistato è usato più come forma di manodopera a basso costo che come percorso formativo. E i contratti stabili restano un miraggio: il 53% dei nuovi assunti under 35 ha un contratto a termine inferiore ai 12 mesi.
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Le ragioni della fuga
Un’indagine Ipsos per la Fondazione Barletta del marzo 2025 rivela che il 35% dei giovani italiani tra i 18 e i 30 anni si dicepronto a lasciare il Paese nei prossimi due anni”. Non solo per guadagnare di più, ma per “sentirsi valorizzati”, “poter crescere” e “non essere trattati da eterni bambini”.
Le mete preferite? Germania, Spagna, Francia, Paesi Bassi, Regno Unito (nonostante la Brexit) e Canada. Paesi dove l’ascensore sociale esiste ancora, dove i servizi pubblici funzionano, e dove i giovani non sono guardati come un problema, ma come una risorsa. “In Olanda ho ottenuto uno stage retribuito in tre giorni. In Italia aspettavo da mesi una risposta via mail”, racconta Giulia, 25 anni, laureata a Bologna.
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Dalla fuga dei cervelli alla fuga delle braccia
Non emigrano più solo i laureati in fisica quantistica o i medici. Oggi partono anche i pizzaioli, i fotografi, gli idraulici, gli OSS, i programmatori, gli artigiani. Il problema non è (solo) il merito. È la dignità del lavoro. Si fugge da un Paese che paga poco, giudica molto e offre meno.
Il Censis, nel suo ultimo rapporto, parla di “emigrazione di massa senza progetto di ritorno”. Secondo il sociologo Ilvo Diamanti, “non è una fuga dei cervelli, è una fuga dell’anima. È un distacco emotivo e culturale da un’Italia che ha smesso di credere nei giovani”.
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Un’Italia senza giovani è un’Italia senza futuro
Le implicazioni non sono solo demografiche. L’emigrazione giovanile impoverisce l’Italia sul piano dell’innovazione, della creatività e della coesione sociale. Ogni giovane che parte è un pezzo di futuro che se ne va. E spesso, a costi pagati dallo Stato: l’Italia spende in media 100.000 euro per formare un giovane dalla scuola materna alla laurea. Se poi quel giovane va a lavorare all’estero, è come se regalassimo capitale umano ai Paesi che già stanno meglio.
Anche il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, lo ha riconosciuto in un’intervista:La fuga dei giovani è un problema strutturale, che richiede un cambiamento radicale del rapporto tra Stato, mercato e formazione”.
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Cosa chiedono i giovani? Risposte, non pacche sulle spalle
Una casa accessibile, un contratto dignitoso, un ambiente meritocratico e servizi che funzionano. Non miracoli, ma diritti. Non assistenza, ma possibilità. “Non vogliamo più sentirci dire che siamo il futuro. Vogliamo esserlo. Qui. Ora”, ha detto Marta, 29 anni, intervenendo al convegno “Giovani e Paese reale” promosso a Roma dal Forum Disuguaglianze e Diversità.
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Riaccendere il futuro si può
Alcune Regioni e Comuni stanno tentando contromisure: la Regione Emilia-Romagna ha varato un fondo da 20 milioni di euro per sostenere affitti e borse lavoro per under 35. Il Comune di Milano ha lanciato il progetto “ViviMI giovani”, con incentivi per startup e spazi di co-living. L’Umbria ha siglato protocolli con le Università per trattenere i neolaureati sul territorio. Ma si tratta ancora di eccezioni, non di sistema.
Servirebbe una strategia nazionale, strutturale, audace. Che parta da un dato semplice: i giovani non sono il problema dell’Italia. Sono la soluzione.
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Chi ha spento il futuro 
Chi ha spento il futuro? La risposta è politica, culturale ed economica. Ma la vera domanda è: chi ha il coraggio di riaccenderlo?

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