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Hegseth nel vortice: nuovi raid, Signal-gate e media contro il Pentagono

- di: Jole Rosati
 
Hegseth nel vortice: nuovi raid, Signal-gate e media contro il Pentagono
Hegseth assediato dopo il raid sul narcoscafo
Video choc del secondo attacco, chat su Signal e guerra con il New York Times: il segretario alla Difesa Usa è nel mirino di Congresso, militari e media. Perfino molti repubblicani iniziano a voltargli le spalle. 

Il video del secondo raid che ha incendiato il Congresso

Il destino politico di Pete Hegseth si gioca su pochi, drammatici secondi di video. Le immagini, mostrate a porte chiuse ai membri delle commissioni Difesa e Intelligence di Camera e Senato, documentano il secondo attacco del 2 settembre contro una barca sospettata di trasportare droga nei Caraibi.

Nel filmato – secondo i parlamentari che lo hanno visionato – si vedono due uomini in acqua, aggrappati ai rottami dell’imbarcazione, già colpita da un primo strike. Non hanno mezzi per allontanarsi, non sembrano armati, non stanno minacciando nessuno. Pochi istanti dopo, un secondo ordigno li centra e li uccide.

La Casa Bianca ha ammesso che il secondo attacco è avvenuto e che i sopravvissuti del primo raid sono stati uccisi, mentre giuristi militari e opposizione ricordano che le leggi di guerra impongono di soccorrere i naufraghi, non di colpirli di nuovo. È qui che nasce l’accusa più pesante: il sospetto di un possibile crimine di guerra.

Il democratico Jim Himes, vertice della commissione Intelligence della Camera, ha parlato del video come di una delle scene più sconvolgenti viste da quando è al Congresso: «Erano probabilmente criminali, ma erano anche naufraghi», ha riassunto, accusando l’amministrazione di aver colpito persone ormai fuori combattimento.

Bradley scagiona il segretario: “Nessun ordine di uccidere tutti”

Al centro del caso c’è l’ammiraglio Frank Bradley, comandante delle operazioni speciali che ha guidato la campagna contro i narcotrafficanti nell’area caraibica. Durante un’audizione durata oltre due ore, Bradley ha offerto una versione che, sul piano strettamente formale, scagiona Hegseth.

L’ammiraglio ha infatti dichiarato davanti ai parlamentari che il segretario alla Difesa non ha mai impartito un ordine del tipo “uccidete tutti i sopravvissuti” e che la decisione di autorizzare il secondo attacco è stata sua, in quanto comandante operativo responsabile sul teatro.

Bradley ha rivendicato la piena legittimità dell’operazione: secondo la sua ricostruzione, i due sopravvissuti restavano “obiettivi legittimi” perché, se lasciati liberi, avrebbero potuto riprendere la loro attività di trasporto di droga per conto dei cartelli latinoamericani.

Questa lettura ha irritato non pochi membri del Congresso. Per molti di loro, una volta in acqua e privi di capacità offensiva, quegli uomini erano a tutti gli effetti naufraghi, e l’unica opzione compatibile con il diritto internazionale sarebbe stata il recupero, non l’eliminazione con un secondo missile.

Dietro le quinte, diversi consiglieri del Congresso ammettono che il dossier Caraibi rischia di trasformarsi nel caso di scuola che rimetterà al centro il tema dei limiti all’uso della forza nella “guerra alla droga” condotta oltre confine dagli Stati Uniti.

Dal “narcoscafo” allo scandalo Signal: il secondo fronte che travolge Hegseth

Mentre la bufera sul narcoscafo venezuelano scuote il Congresso, per Hegseth si apre un secondo, pericolosissimo fronte: il caso delle chat su Signal riguardanti gli attacchi americani agli Houthi in Yemen.

Un rapporto dell’ispettore generale del Pentagono ricostruisce come, il 15 marzo 2025, il segretario alla Difesa abbia condiviso su un gruppo Signal personale dettagli operativi su un imminente strike in Yemen, attingendo a un messaggio classificato inviato dal Comando centrale Usa. Il tutto da un telefono privato, collegato a un sistema “ad hoc” che gli permetteva di usare il cellulare anche all’interno degli uffici più protetti del Pentagono.

Gli investigatori sottolineano che, se quelle comunicazioni fossero state intercettate, i militari sul campo avrebbero corso rischi seri. A rendere l’episodio ancora più imbarazzante c’è il fatto che parte delle chat è diventata pubblica attraverso screenshot finiti sulla stampa, a dimostrazione di quanto fosse fragile la catena di sicurezza.

Il rapporto mette nero su bianco che Hegseth ha violato le policy interne del Dipartimento della Difesa sull’uso di canali non sicuri e sul dovere di conservare i messaggi ufficiali. Le cronologie di Signal, basate su messaggi che si autodistruggono, sono state ricostruite solo in parte, anche grazie a copie conservate da giornalisti.

Il documento non arriva a configurare un reato in senso stretto in materia di segreti di Stato, ma l’accusa politica è devastante: il capo del Pentagono avrebbe esposto inutilmente i soldati e le operazioni ad un potenziale rischio, per di più rifiutandosi di collaborare pienamente con gli investigatori, che lamentano il mancato accesso allo smartphone del segretario.

Dimissioni chieste apertamente, repubblicani sempre più a disagio

Il fronte politico è ormai apertamente spaccato. Il senatore democratico Mark Warner, numero due della commissione Intelligence del Senato, ha chiesto senza giri di parole che Hegseth si dimetta o venga rimosso proprio alla luce delle conclusioni dell’ispettore generale sul caso Signal e del caos creato dalle operazioni nei Caraibi.

Alla Camera, esponenti progressisti spingono per andare oltre: sono stati annunciati articoli di impeachment che contestano al segretario alla Difesa la responsabilità politica e morale delle operazioni contro le imbarcazioni sospettate di narcotraffico e del presunto ordine di colpire anche i sopravvissuti.

Se Donald Trump continua a difendere pubblicamente il suo ministro della Difesa, dipingendolo come un uomo “duro ma necessario” in un momento di minacce globali e di crisi ai confini, nel Partito repubblicano si moltiplicano i mal di pancia.

Il leader della maggioranza al Senato, John Thune, ha definito la vicenda Signal un “errore” che non deve ripetersi, evitando però di esprimere un vero endorsement. Ha ricordato che il capo del Pentagono “serve a piacimento del presidente”, rimandando di fatto a Trump ogni decisione sul futuro di Hegseth.

Altri senatori repubblicani, pur fermandosi un passo prima di chiedere le dimissioni, ammettono in privato che la gestione del dossier Caraibi e la leggerezza sulle comunicazioni hanno reso il segretario politicamente tossico. Il risultato è un partito diviso tra chi vuole stringere i ranghi attorno a Trump e chi teme il costo elettorale di difendere a oltranza un ministro così indebolito.

La guerra con il New York Times e il nodo libertà di stampa

Come se non bastasse, Hegseth è ora anche al centro di uno scontro frontale con i principali media americani. Il New York Times ha infatti presentato una causa davanti alla corte federale di Washington contro il Dipartimento della Difesa, indicando come imputati lo stesso segretario e il portavoce del Pentagono Sean Parnell.

Nel mirino c’è la nuova policy per gli accrediti stampa: ai giornalisti è richiesto di firmare un documento in cui riconoscono che, ponendo domande su determinate informazioni, potrebbero essere considerati un potenziale “rischio per la sicurezza”. Chi si rifiuta di firmare perde l’accesso al Pentagono.

Il Times sostiene che la misura viola il Primo e il Quinto emendamento della Costituzione, perché introduce una forma di intimidazione preventiva, scoraggiando le domande sgradite e limitando il flusso di notizie su questioni militari di interesse pubblico. A fare fronte comune con il quotidiano newyorkese ci sono decine di altre testate, che hanno restituito o rifiutato i tesserini pur di non sottoscrivere le nuove condizioni.

La reazione del Pentagono è stata dura: Hegseth e i suoi collaboratori accusano il Times di voler “dettare le regole” e difendono la policy come uno strumento necessario per proteggere le operazioni in corso in teatri di guerra. Ma il rischio politico è evidente: in un momento in cui il segretario è già sospettato di aver messo a repentaglio la sicurezza dei soldati con leggerezze su Signal, presentarsi come uomo che limita la stampa rafforza l’immagine di un potere più preoccupato di controllare il racconto pubblico che di fare chiarezza.

Il conflitto tra sicurezza, diritto di guerra e opinione pubblica

Dietro l’assedio politico a Pete Hegseth si intrecciano tre piani diversi ma collegati: il rispetto del diritto internazionale umanitario, la protezione dei segreti militari nell’era delle app criptate e la tenuta della libertà di stampa in un contesto di guerra permanente.

Sul primo fronte, la domanda è brutale: è accettabile che gli Stati Uniti, in nome della guerra alla droga, colpiscano naufraghi inerme in acque straniere? Se la risposta dei giuristi è negativa, il caso Caraibi potrebbe diventare un precedente pesantissimo per future operazioni “fuori area”.

Sul secondo fronte, lo scandalo Signal dimostra che non basta avere regole severe se poi sono proprio i vertici a ignorarle. Se l’ispettore generale certifica che il segretario alla Difesa ha creato un rischio per le truppe diffondendo dettagli operativi su un’app privata, il messaggio che passa ai livelli inferiori della catena di comando è devastante: la disciplina vale solo per i gradi bassi.

Infine, sul terreno della libertà di stampa, la causa del New York Times apre un contenzioso che potrebbe finire in Corte Suprema. La domanda è se un’amministrazione possa pretendere che i giornalisti si auto-certifichino come “possibili rischi” per il solo fatto di fare domande scomode. Una risposta affermativa segnerebbe un precedente duro per l’intero ecosistema dei media americani.

È per questo intreccio di dossier – Caraibi, Yemen, rapporto dell’ispettore generale, guerra con la stampa – che molti a Washington vedono Hegseth come un ministro a tempo. Se cadrà, sarà il simbolo di un’epoca in cui la linea tra guerra e politica, segreto e propaganda è diventata pericolosamente sottile. Se sopravviverà, sarà perché la Casa Bianca avrà deciso di intestarsi non solo i suoi successi militari, ma anche tutte le sue ombre.

Un uomo solo al Pentagono, circondato da video, chat e ricorsi in tribunale: la storia di Pete Hegseth è il termometro di quanto la democrazia americana regga l’urto di guerre lontane ma politicamente vicinissime.

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