Inapp, occupazione cresce ma resta elevato il gender gap e spunta anche la discriminazione algoritmica

- di: Barbara Leone
 
L’occupazione cresce, ma non intacca il divario di genere. Pur avendo toccato quota 60,5% lo scorso ottobre, il valore più alto dal 1977, i tassi di occupazione di uomini e donne continuano a restare distanti (rispettivamente 69,5% e 51,4%) con un gap di genere del 18%. Il tasso di disoccupazione femminile è al 9,2% contro il 6,8% degli uomini, divario che aumenta per i giovani fra i 15 e i 24 anni con tassi del 32,8% per le ragazze e il 27,7% per i ragazzi. Anche la sfera della non partecipazione vede ancora penalizzate le donne con un tasso di inattività del 43,3 % contro il 25,3% degli uomini. È quanto emerge dal Gender Policies Report 2022, la pubblicazione dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) che ogni anno fotografa le differenze di genere nel mondo del lavoro e che è stata presentata oggi a Roma nel corso di un convegno.

Inapp, occupazione cresce ma resta elevato il gender gap

“Malgrado la crescita - ha dichiarato Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp - restano immutati i gap di genere nel mercato del lavoro e le criticità strutturali che determinano la bassa partecipazione femminile: occupazione ridotta, prevalentemente precaria, part time e in settori a bassa remuneratività o poco strategici. Dunque, la situazione femminile, pur migliorata in termini assoluti, peggiora in termini relativi. Se confrontiamo, infatti, questi dati con quelli del 2021 vediamo che i tassi di occupazione crescono di più per gli uomini che per le donne (+1,7% contro +1,4%) e che la disoccupazione cala in misura maggiore per gli uomini (-1,2% contro -0,9%). L’inattività diminuisce per uomini e per donne, ma per quest’ultime cala solo quella legata a studio e formazione, mentre invece cresce quella legata a motivi familiari”. I dati relativi al primo semestre del 2022 confermano la specificità femminile del part time come forma di ingresso al lavoro. Su tutti i contratti attivati a donne il 49% è a tempo parziale contro il 26,2% maschile.

In particolare, è a part time oltre la metà (51,3%) dei contratti a tempo indeterminato delle donne. Mentre tipicamente femminile è la condizione di “debolezza rafforzata” ossia la presenza di due fattori di criticità associati: la forma contrattuale precaria e il tempo parziale. Se consideriamo solo il lavoro a tempo determinato, che occupa il 38% dei contratti delle donne e il 43% di quelli degli uomini, si nota che della prima quota il 64% è part time e della seconda lo è il 32%. Nel 2021 l’incidenza di donne occupate che lavorano in part time è superiore rispetto agli uomini di circa 15 punti percentuali in Europa e di più di 22 punti in Italia. Anche i dati sulla conciliazione vita-lavoro evidenziano un mercato del lavoro italiano più rigido della media europea. Le donne, sia in Europa che in Italia, godono di minore flessibilità rispetto agli uomini. Nel nostro Paese tale difficoltà si coglie soprattutto per le lavoratrici laureate, per cui tali indicatori sono sopra la media Ue. Ma soprattutto le lavoratrici sono meno coinvolte nell’organizzazione degli orari di lavoro: in Italia nel 76% dei casi è il solo datore di lavoro a decidere l’orario di ingresso e uscita dal lavoro, contro una media Ue27 del 57%, rispetto a valori maschili rispettivamente del 68 e 62%. Il Gender Report, inoltre, coglie e fornisce esempi concreti di un nuovo fenomeno. Una nuova forma di discriminazione, ovvero quella legata all’uso degli algoritmi da parte delle piattaforme digitali. Tali strumenti, infatti, risentono del sistema di significati, idee e giudizi e con essi di stereotipi e pregiudizi di chi li ha ideati e costruiti.

Ne deriva che nel mercato del lavoro digitale si riproducono esattamente gli atteggiamenti discriminatori che si riscontrano nei lavori tradizionali. “Le menti che programmano gli algoritmi non sono diverse da quelle che, normalmente, scelgono chi assumere, promuovere, remunerare di più, licenziare e così via - ha evidenziato Fadda -. La discriminazione algoritmica può dunque ugualmente agire e, in maniera implicita, produrre condotte discriminatorie di genere nel lavoro. Risulta inderogabile la necessità di approfondire il legame tra società digitale e discriminazioni, nelle sue evidenti connotazioni di genere. Si pensi, ad esempio, a come stereotipi e pregiudizi, che storicamente definiscono la percezione e la narrazione del femminile, possono essere tradotti in discriminazioni attraverso algoritmi deputati alla selezione del personale o alla definizione delle retribuzioni o a sistemi di valutazione delle performance”.

Il report analizza, infine, anche le caratteristiche del lavoro domestico, un settore lavorativo in costante crescita, che ad oggi rileva circa 2 milioni di famiglie quali datori di lavoro e una crescente domanda, particolarmente volta a sostenere le esigenze di cura di persone anziane o malate (circa il 74% della domanda). I dati mostrano una netta prevalenza della componente femminile tra gli occupati, per il 60% straniera, con un’età media in progressivo aumento e a oggi compresa tra i 45 e i 59 anni. Il settore è caratterizzato da una ampia quota di lavoro sommerso: si stima che sette lavoratori o lavoratrici su dieci (68,3%) non abbiano alcuna formalizzazione contrattuale e di conseguenza alcuna tutela, sebbene minima, prevista dal CCNL di riferimento. Si registra, inoltre, un 34,3% di lavoro grigio, una forma di lavoro parzialmente regolare che presenta un contratto di lavoro formalizzato, ma con la dichiarazione di un numero di giornate inferiore a quante prestate effettivamente dal collaboratore. Irregolarità maggiori si registrano nel baby-sitting (51,8% dei casi) e nelle regioni del Sud Italia. Più in generale, il tema della parità retributiva rappresenta una delle sfide costanti, nell’ambito delle politiche di genere e rappresenta un aspetto che, sotto il profilo normativo, ha ricevuto sia a livello europeo che nazionale una forte attenzione istituzionale. Su questo fronte l’Italia, mediante la legge 162/2021, che tenta di agire su alcuni elementi alla base dei differenziali retributivi di genere, ha anticipato i cambiamenti auspicati nella proposta di direttiva europea.
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