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Martina, la violenza di genere in età precoce e la cultura del possesso che uccide

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Martina, la violenza di genere in età precoce e la cultura del possesso che uccide
Il ritrovamento del corpo di Martina Carbonaro, 14 anni, ad Afragola, non può essere archiviato come una semplice notizia di cronaca nera. Il fatto che a ucciderla, secondo la confessione raccolta dai carabinieri, sia stato l’ex fidanzato coetaneo, che l’avrebbe colpita con pietre e nascosta in un armadio, impone una riflessione collettiva sulla radice culturale della violenza. Il femminicidio, in questo caso, non è un evento isolato o incomprensibile, ma l’esito estremo e tragico di un modello relazionale interiorizzato precocemente. Si tratta di un paradigma patriarcale che insegna a identificare il rifiuto con l’affronto personale, il legame affettivo con il controllo, la perdita con l’annientamento dell’altro.

Martina, la violenza di genere in età precoce e la cultura del possesso che uccide

Che un ragazzo giovanissimo, appena adolescente, si senta autorizzato ad uccidere una coetanea per motivi legati alla relazione sentimentale, apre uno squarcio inquietante sul tessuto educativo del nostro tempo. È il segno che la società ha smesso di coltivare un’etica dell’affettività in favore di una narrazione possessiva, dove il partner è visto come proprietà e non come soggetto libero. Le famiglie, la scuola, i media, i social network: tutti sembrano restare al margine di una formazione emotiva che dovrebbe insegnare il limite, il rispetto, il valore della libertà altrui. Al contrario, le relazioni vengono spesso rappresentate come territori da occupare e difendere, e la frustrazione si trasforma in sopraffazione. Quando accade tra adulti, l'orrore è già noto. Quando esplode tra minori, rivela che il seme è piantato ben prima.

Il femminicidio non conosce età

Martina non è solo la vittima di un omicidio. È la prova vivente – e ora purtroppo morta – che la violenza di genere non ha bisogno di tempo per maturare. Non serve che un uomo abbia alle spalle anni di frustrazioni, di rotture, di lavoro perduto o di carriere mancate per colpire una donna. Basta un contesto che lo legittimi fin dall’inizio, che lo alleni all’idea che il rifiuto è inaccettabile, che l’abbandono è un affronto personale, che la donna può essere punita se non risponde alle aspettative. Questo contesto non è fatto solo di famiglie fragili o ambienti difficili. È lo stesso contesto che tollera battute sessiste a scuola, che normalizza il controllo attraverso i messaggi, che riduce l'identità femminile al compiacimento o alla funzione affettiva. E che non ha ancora strumenti efficaci per intervenire prima della tragedia.

Il sistema penale e la responsabilità pubblica

L’arresto del giovane – accusato di omicidio volontario pluriaggravato e occultamento di cadavere – arriva quando tutto è ormai compiuto. Il sistema giudiziario fa il suo corso, ma resta cieco nel prevenire ciò che invece potrebbe essere intercettato a monte. La responsabilità penale del singolo non assolve la collettività dal chiedersi come un ragazzo possa arrivare a trasformare il dissidio in delitto. Gli sportelli antiviolenza, le campagne istituzionali, le ore scolastiche dedicate all’educazione sentimentale, restano strumenti marginali finché non si affronta il problema in modo sistemico. Ciò che servirebbe è un’educazione continua all’empatia, alla gestione del conflitto, alla cura delle emozioni: elementi che dovrebbero essere centrali nei programmi formativi e nei progetti territoriali, non risposte occasionali dopo la morte di una ragazzina.

Un urlo che riguarda tutti

“Figlia mia, chi ti ha fatto del male la pagherà, vola in alto”, ha scritto la madre di Martina. Un urlo disperato che si leva da un dolore personale, ma che dovrebbe farsi eco collettiva. La tragedia di Afragola non si esaurisce nel dolore privato o nella cronaca locale. È una fenditura profonda nel presente di un Paese che non ha ancora compreso fino in fondo quanto le sue ragazze siano esposte a una cultura che le rende bersagli fin dalla pubertà. E quanto i suoi ragazzi, se lasciati soli nel groviglio emotivo dell’adolescenza, possano diventare carnefici anche senza consapevolezza. Serve un patto nuovo, che metta al centro la formazione affettiva, il linguaggio pubblico, la responsabilità educativa. Martina non tornerà, ma non può essere dimenticata come se fosse un caso. Perché non lo è.


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