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La radice profonda della violenza adolescenziale: il caso di Martina Carbonaro

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
La radice profonda della violenza adolescenziale: il caso di Martina Carbonaro

Nel nostro Paese la violenza relazionale tra adolescenti è spesso liquidata come un problema marginale, un’eccezione dolorosa ma isolata. Eppure, gli episodi si moltiplicano. Ragazze controllate, minacciate, isolate. Ragazzi incapaci di distinguere il sentimento dalla proprietà. In un’Italia che parla sempre più spesso di femminicidi, ciò che accade tra i giovanissimi fatica a trovare parole, spazi, strutture educative adeguate. La scuola ha timidamente iniziato a introdurre percorsi sull’affettività, ma sono ancora sporadici e affidati alla buona volontà di singoli insegnanti. Le famiglie, spesso in difficoltà, faticano a intercettare i segnali. I servizi sociali arrivano quando tutto è già rotto.

La radice profonda della violenza adolescenziale: il caso di Martina Carbonaro

La violenza di genere tra minori resta avvolta in una nebbia culturale in cui il possesso è ancora confuso con l’amore. A questo si aggiunge l’impatto distorsivo dei social network, dove le relazioni diventano teatro di esibizioni, gelosie, pressioni continue. La costruzione dell’identità emotiva nei giovani oggi è lasciata a un fai-da-te pericoloso, dove l’assenza di adulti capaci di ascoltare si somma a una fragilità diffusa. Gli strumenti per intervenire esistono, ma non vengono attivati in modo sistemico: si agisce dopo, mai prima.

Il contesto: periferie fragili e disgregazione educativa
Ci sono territori dove queste dinamiche si innestano su contesti già fragili. Le periferie urbane, i quartieri disagiati, i luoghi in cui scuola e istituzioni faticano a esercitare un presidio effettivo. In questi spazi, il vuoto educativo spesso viene riempito dalla violenza. La cultura patriarcale non è solo una reliquia del passato: sopravvive nei gesti quotidiani, nei modelli familiari trasmessi senza filtri, nei silenzi che legittimano. Ed è proprio in questi ambienti che la violenza affettiva diventa più visibile, più cruda, più tragica.

Ma anche nei contesti meno marginali si manifesta un’incapacità generale di fornire strumenti ai giovani per riconoscere e gestire le emozioni. L’educazione emotiva è la grande assente delle politiche pubbliche. E così, ogni nuovo caso di violenza tra ragazzi viene raccontato come un fatto imprevedibile, un gesto di follia, un raptus. E invece, sempre più spesso, è il punto terminale di un processo silenzioso e riconoscibile.

Martina, vittima di una relazione malata
Martina Carbonaro aveva 14 anni. Viveva ad Afragola, in provincia di Napoli. Lunedì sera era scomparsa, e il suo corpo è stato ritrovato due giorni dopo in un edificio abbandonato, nascosto in un vecchio armadio vicino all’ex stadio della città. A ucciderla, secondo la confessione, è stato il suo ex fidanzato, un ragazzo di 19 anni che non accettava la fine della relazione. “Mi aveva lasciato”, avrebbe detto agli inquirenti per spiegare il gesto. L’ha colpita con una pietra, e poi ha nascosto il corpo. È stato arrestato per omicidio volontario pluriaggravato e occultamento di cadavere.

Martina era una ragazzina come tante. Andava a scuola, usciva con gli amici, cercava di costruirsi un’idea di sé. Aveva vissuto una relazione da cui forse voleva uscire, ma non ha avuto il tempo né lo spazio per farlo in sicurezza. Intorno a lei, nessuno sembra aver colto fino in fondo i segnali. Non c’erano denunce, né segnalazioni. Solo, forse, piccoli indizi: un atteggiamento possessivo, una gelosia eccessiva, qualche parola troppo dura. Indizi che spesso vengono sottovalutati. Fino al silenzio finale.

Una morte che interpella tutti
La madre di Martina ha urlato il suo dolore davanti alle telecamere: “Chi ti ha fatto del male pagherà. Non si può morire così”. Le sue parole, straziate, rimbalzano in un Paese dove le storie come quella di sua figlia rischiano di passare in fretta. Ma non possono essere solo lacrime. La vicenda di Martina ci costringe a guardare dritto negli occhi una realtà che troppe volte abbiamo preferito non vedere. L’amore che uccide non è amore. E la violenza adolescenziale non è una deviazione, ma il prodotto di una cultura che abbiamo il dovere di trasformare.

Oggi, ad Afragola, si piange una ragazza di 14 anni uccisa dal suo ex. Ma il lutto deve diventare reazione. Serve un’azione educativa capillare, continua, radicale. Serve che ogni scuola abbia un presidio fisso contro la violenza. Che ogni famiglia sia affiancata e non lasciata sola. Che ogni ragazzo possa trovare un adulto capace di spiegargli cosa significa amare. Solo così, un giorno, potremo dire che non è morta invano.

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