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Addio a Nino Benvenuti, il pugile gentiluomo che ha fatto innamorare l’Italia

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Addio a Nino Benvenuti, il pugile gentiluomo che ha fatto innamorare l’Italia
Con la morte di Nino Benvenuti, scomparso a 87 anni a Roma, si chiude un capitolo irripetibile della storia italiana, non solo sportiva. Campione olimpico, plurititolato tra i professionisti, star dei media e idolo di un Paese che cercava riscatto e visibilità nel mondo, Benvenuti è stato il simbolo di un’Italia che usciva dalla guerra e voleva correre, sudare, brillare. Ma non era solo forza e tecnica: Benvenuti era stile, era fotogenia, era eleganza innata. In lui, il ring non era soltanto scontro: era racconto, presenza scenica, educazione. La sua parabola sportiva è diventata un modello di ascesa, disciplina e fascino. Un uomo che ha attraversato generazioni senza mai essere relegato alla nostalgia.

Addio a Nino Benvenuti, il pugile gentiluomo che ha fatto innamorare l’Italia

Nato il 26 aprile 1938 a Isola d’Istria, in un angolo di mondo allora italiano e oggi croato, Nino Benvenuti rappresenta il prototipo del campione naturale. Sin dai primi guantoni indossati nella palestra di Trieste, dimostrò una classe innata, una compostezza che lo rendevano immediatamente diverso. L’apice della sua carriera da dilettante fu l’oro olimpico ai Giochi di Roma del 1960, in una squadra azzurra che sapeva commuovere e unire. Per lui, il titolo arrivò con una consacrazione ulteriore: fu eletto miglior pugile delle Olimpiadi, un riconoscimento che andava oltre la vittoria e che lo iscriveva definitivamente nella geografia dei talenti mondiali.

L’America, Griffith e l’identità italiana all’estero

Ma è tra il 1967 e il 1970 che Nino Benvenuti entra nella leggenda. I suoi match con Emile Griffith al Madison Square Garden di New York non sono stati solo battaglie sportive: sono stati un ponte tra l’Italia e la sua diaspora, tra chi era rimasto e chi era partito. Per milioni di italiani d’America, Nino non era solo un pugile: era un connazionale che combatteva in loro nome, un volto pulito che si opponeva ai cliché, un simbolo positivo nella patria dell’emigrazione. Non è un caso che la rivista Life scrisse: “Nessun campione piace come Nino”. Era un’affermazione di identità. Combatté tre volte contro Griffith, vincendo due volte e perdendo l’ultima, ma anche quella sconfitta non ne intaccò l’aura. Anzi, la rese umana, accessibile, ammirabile.

Il fidanzato d’Italia, tra tv e memoria collettiva

Nel pieno degli anni Sessanta, Benvenuti divenne un personaggio mediatico a tutto tondo. Bello, istrionico, educato. Lo si vedeva in tv, lo si ascoltava alla radio, i suoi incontri diventavano eventi collettivi seguiti con fervore notturno. In un Paese che si stava industrializzando, aprendo al mondo e cercando modelli di riferimento, Benvenuti incarnava un nuovo tipo di uomo: sportivo ma raffinato, competitivo ma mai aggressivo. Il suo volto compariva accanto a quello dei grandi attori e dei cantanti più amati. E lui, senza mai smettere di allenarsi, diventava un’icona. Non solo del pugilato, ma di un’Italia che si riconosceva nella capacità di tenere insieme ambizione e misura.

La fine del pugilato come epopea popolare


La scomparsa di Nino Benvenuti arriva in un tempo in cui il pugilato non occupa più il centro della scena popolare. Oggi, lo sport è frantumato, i campioni spesso sono prodotti mediatici più che simboli condivisi. Benvenuti, invece, era leggenda incarnata. I suoi guantoni, le sue vittorie, le sue frasi misurate, anche le sue sconfitte, appartenevano a tutti. Era il campione della gente e della borghesia, degli emigrati e dei cittadini, del Sud e del Nord. Un uomo che metteva d’accordo, unendo stile e potenza. La sua morte segna un confine: tra ciò che lo sport italiano è stato e ciò che è diventato. Ma il ricordo di Nino continuerà a salire sui ring della nostra memoria ogni volta che cercheremo un volto per rappresentare la dignità della vittoria.
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