La tragedia si è consumata all’ora di pranzo, in pieno giorno, in un giardino pubblico a Rocca di Papa, alle porte di Roma. Un uomo, Guglielmo Palozzi, ha sparato e ucciso un 35enne, Franco Lollobrigida, da poco condannato per l’omicidio di suo figlio, avvenuto nel 2021 per un debito di droga. Una vendetta a sangue freddo, che restituisce alla cronaca italiana il volto ruvido della giustizia fai-da-te, dove la sofferenza si trasforma in pistola, e il dolore diventa detonatore. L’agguato non è stato preceduto da liti o minacce: l’uomo ha agito con calma, poi è rimasto sul posto, consegnandosi ai carabinieri. Ora è accusato di omicidio volontario.
Rocca di Papa, vendetta dopo quattro anni: uccide l’assassino del figlio nel giardino pubblico
Il tempo della giustizia e quello del lutto spesso non coincidono. Il condannato, giudicato colpevole e destinato a scontare dieci anni, aveva da poco iniziato la detenzione, ma continuava a frequentare il paese in regime di semilibertà. Un dettaglio che ha ferito ulteriormente la famiglia della vittima, per la quale il ritorno alla normalità del condannato ha rappresentato un’ulteriore umiliazione. In un contesto di ferita ancora aperta, la percezione di una giustizia inefficace può diventare carburante per la violenza privata, per la legge del taglione che il sistema legale cerca da secoli di superare.
La comunità spaesata e il trauma collettivo
Rocca di Papa è una comunità piccola, dove tutto si conosce e tutti si conoscono. In pochi minuti, l’agguato si è trasformato in un trauma collettivo. I bambini erano nel parco, le famiglie stavano facendo la spesa, la normalità è stata bucata da un’esplosione di passato e sangue. “Era un uomo distrutto da anni”, raccontano i vicini dell’omicida, descrivendolo come “un padre schiacciato da un’assenza che non ha mai accettato”. In paesi come questi, il dolore si muove in superficie, non si sedimenta. E quando l’elaborazione del lutto si intreccia con l’ingiustizia percepita, la comunità stessa entra in crisi, tra solidarietà, silenzi e giudizi.
La vendetta come forma di identità
L’atto di vendetta è anche un atto identitario. Il padre che ha sparato non ha solo cercato un risarcimento simbolico, ma ha voluto riprendersi un ruolo, una voce, una centralità che il processo gli aveva tolto. In molti casi, il sistema giudiziario tratta i familiari delle vittime come spettatori passivi, mentre il rito processuale si consuma tra tecnicismi e sconti di pena. L’omicida ha agito in uno spazio pubblico non a caso: ha scelto il giardino, la piazza, il cuore del paese. Un’esecuzione, certo, ma anche una rappresentazione tragica della sua sofferenza.
Il rischio dell’emulazione e la fragilità dello Stato
Fatti come questo non si esauriscono nel singolo evento. L’uccisione a Rocca di Papa rischia di diventare paradigma, esempio, tentazione. In un Paese dove il senso di sfiducia nelle istituzioni è alto, il gesto del padre può trovare eco in altri contesti. È questo che temono i sociologi e gli operatori della giustizia riparativa: che la vendetta si travesta da giustizia, che l’emozione prenda il posto del diritto. Lo Stato, per evitare che questo accada, non può limitarsi a punire. Deve ascoltare, includere, rendere le vittime parte del processo. Altrimenti, a ogni sentenza si potrà rispondere con una pistola.