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La crepa nel sistema del carcere aperto. Quando la reintegrazione fallisce: tra utopia e abbandono

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
La crepa nel sistema del carcere aperto. Quando la reintegrazione fallisce: tra utopia e abbandono

La tragedia di Milano, con il suicidio spettacolare di un detenuto evaso e l’assassinio della donna che lo accompagnava, non è soltanto un episodio da consegnare alla cronaca nera. È piuttosto il punto di rottura di un’idea di carcere che, da anni, viene raccontata come avanzata, umanizzata, orientata alla rieducazione. Il “modello Bollate”, fino a oggi considerato uno dei fiori all’occhiello del sistema penitenziario italiano, si ritrova adesso al centro di un interrogativo più profondo: può esistere una vera giustizia rieducativa senza un tessuto sociale che accompagni, vigili, protegga?

La crepa nel sistema del carcere aperto. Quando la reintegrazione fallisce

La figura di Emanuele De Maria, condannato per omicidio ma ammesso al lavoro esterno come receptionist in un hotel, emerge come emblematica. Non tanto per il gesto finale – il suicidio sulla terrazza del Duomo – quanto per il vuoto istituzionale e relazionale dentro cui si è consumata la sua parabola. Era un soggetto fragile, che avrebbe richiesto monitoraggio, ascolto, orientamento costante. Ma il suo tragitto, come quello di molti altri, si è snodato in un limbo senza rete: fuori dal carcere, ma non ancora dentro la società.

La solitudine come dispositivo di esclusione

La storia di Chamila Wijesuriyauna, ritrovata morta in un laghetto con evidenti ferite da arma da taglio, è l’altra metà di questa vicenda. Donna migrante, lavoratrice silenziosa nel medesimo hotel, anch’essa immersa in quella zona grigia che è il lavoro povero e invisibile. La sua morte, più nascosta e meno simbolica del suicidio in piazza, rivela un'altra dimensione della crepa: la solitudine sociale, l’assenza di protezione, la fragilità delle relazioni dentro ambienti che mettono insieme disagio, precariato e assenza di strumenti di cura.

La reintegrazione, per funzionare, dovrebbe essere un processo continuo e comunitario, e invece in Italia è quasi sempre un esercizio burocratico. I percorsi di rientro non sono accompagnati da servizi pubblici di qualità, né da un monitoraggio psicologico adeguato. Non ci sono equipe multidisciplinari, né percorsi integrati con il territorio. L’accesso al lavoro, quando c’è, è spesso solitario, privo di mediazione, affidato a imprese poco formate o a contesti in cui la marginalità esplode in silenzio.

La politica penitenziaria tra mito e realtà

Il carcere aperto funziona solo in una società aperta. Ma l’Italia è ancora un Paese dove il carcere resta un contenitore d’eccezione: opaco, residuale, privo di controllo pubblico. Le misure alternative – domiciliari, lavoro esterno, affidamento in prova – sono previste dalla legge, ma applicate senza risorse, con personale ridotto all’osso, in assenza di una visione complessiva. L’idea stessa di “rieducazione” è spesso lasciata alla buona volontà di singoli direttori o operatori, e non sorretta da una vera politica pubblica.

Bollate, in questo senso, è stata più un’eccezione che un modello. Ma anche l’eccezione, quando isolata, rischia di crollare sotto il peso delle aspettative. Il caso di Milano dimostra che un carcere che si apre al mondo non può prescindere dal fatto che il mondo fuori è pieno di disuguaglianze, traumi non curati, relazioni di potere. E che senza un supporto reale – clinico, sociale, culturale – il rischio di fallimento non solo aumenta, ma esplode in forme tragiche.

Il diritto all’errore e il dovere della vigilanza

Reinserire non significa solo concedere fiducia: significa assumerne la responsabilità. Il diritto all’errore deve camminare con il dovere della vigilanza. In Italia, però, il sistema è concepito per ridurre i danni più che per prevenire i disastri. E ogni volta che una misura alternativa sfocia nella violenza, la reazione è riflessa: sospendere, punire, chiudere. Ma la soluzione non sta nel ritorno al carcere duro, né nel restringere le maglie. Sta nel riconoscere che reintegrare non è una scorciatoia penale, ma un investimento sociale a lungo termine.

Serve una politica penitenziaria che non sia solo emergenziale, ma strutturale. Che sappia costruire relazioni tra giustizia, sanità, formazione, lavoro e cittadinanza. Che sappia ascoltare i silenzi prima che diventino urla. Perché in fondo, nel suicidio di De Maria e nella morte di Chamila, c’è un grido muto che riguarda tutti noi: il nostro modo di intendere la pena, il perdono, la sicurezza. E soprattutto il nostro grado di civiltà.

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