L’ex presidente attacca Oslo, accusa l’Occidente, rivendica accordi in Africa e Asia e si dice vittima di un complotto. Il vero obiettivo? Vendicarsi del premio a Obama.
La nuova ossessione di Trump
Donald Trump rivuole tutto: la Casa Bianca, l’applauso globale, la gloria perduta. E ora anche il Premio Nobel per la Pace. Sì, proprio lui, l’uomo che ha minacciato ritorsioni contro la Nato, imposto dazi a mezzo mondo, flirtato con autocrati, giustificato l’assalto al Congresso del 6 gennaio come “un atto d’amore”. “Ho evitato almeno cinque guerre, ma il Nobel lo daranno a qualche professore sconosciuto”, ha tuonato il 3 luglio in un comizio in Iowa.
Ecco che, mentre l’America si spacca tra chi lo acclama e chi lo teme, Trump torna a giocare la carta del premio più ambito, un tempo simbolo universale di distensione, oggi ridotto – a sentir lui – a oggetto di invidia personale.
L’elenco autoproclamato dei meriti
I casi citati da Trump sono quelli dei negoziati, mai formalizzati né confermati da fonti indipendenti, tra India e Pakistan, Congo e Ruanda. Ma secondo l’ex presidente, il merito di averli “fatti sedere al tavolo” è tutto suo.
Lo stesso Trump aveva già sbandierato nel 2020 gli Accordi di Abramo come prova della sua “visione di pace”, arrivando a ricevere quattro candidature al Nobel. Ma mai un riconoscimento effettivo. Questa volta, però, il tono è più rabbioso. Più personale. Sotto accusa, ancora una volta, l’“élite liberal globalista” che – secondo Trump – premia solo chi “piace al sistema”. Come Barack Obama, vincitore del Nobel nel 2009 appena nove mesi dopo il suo insediamento.
L’invidia per Obama: la radice del rancore
Quel Nobel concesso all’ex presidente nero è la ferita che Trump non ha mai smesso di toccare. Secondo alcuni osservatori, è questo il vero motore dell’attuale campagna. Non c’è solo la voglia di riscrivere il proprio curriculum, ma anche la furia di non essere mai stato riconosciuto quanto il suo predecessore.
“Trump è ossessionato da Obama”, scrive lo storico Allan Lichtman. “Lo considera l’unico avversario che ha vinto davvero sul piano simbolico. E il Nobel è il massimo della legittimazione simbolica”.
Eppure, i contrasti sono evidenti. Mentre Obama si era fatto portatore di una dottrina multilaterale e cooperativa, Trump ha costruito tutta la sua politica estera sull’“America First”, mettendo in crisi alleanze storiche e soffiando sul fuoco dei nazionalismi.
Un candidato tra guerre commerciali e incostituzionalità
Nelle stesse ore in cui si auto-candidava per la pace mondiale, la sua amministrazione veniva contestata su più fronti. La Corte Suprema ha bocciato la proposta trumpiana di vietare l’ingresso negli USA a tutti i cittadini provenienti da Paesi che “non riconoscono la supremazia americana”, definendola “arbitraria, discriminatoria e in contrasto con la Costituzione”.
Non basta. I suoi dazi su acciaio, automotive e tecnologia europea stanno generando ritorsioni a catena: Bruxelles ha annunciato una risposta “proporzionata e legittima”. Il Giappone ha protestato per le nuove barriere sulle esportazioni elettroniche. E lo stesso Congresso USA è diviso, con alcuni repubblicani “preoccupati per il danno sistemico”.
Un Nobel in cambio del silenzio?
Per molti osservatori, il vero obiettivo di Trump non è tanto ricevere il Nobel, quanto usarlo come strumento di legittimazione per le sue politiche aggressive. “Si tratta di un’arma mediatica. Non vincerà mai, ma intanto domina il dibattito”, ha spiegato l’analista Richard Haass.
In pratica, un ricatto morale: io sono uomo di pace, quindi le mie scelte non vanno contestate. È un paradosso, specie se si considera che proprio lui ha minacciato di “sfilarsi dalla Nato se gli alleati non pagano”.
Il silenzio di Oslo e il fastidio della comunità diplomatica
Il Comitato per il Nobel di Oslo ha scelto di non commentare le parole del presidente americano, ma un membro ha confidato che “le candidature non equivalgono a meriti, e la selezione si basa su fatti documentati e non su autocelebrazioni”.
Dura anche la reazione di alcuni diplomatici europei. “La pace si fa con il dialogo, non con la minaccia”, ha detto l’ambasciatore tedesco all’ONU. E dalla Francia è arrivato un commento sarcastico di Raphaël Glucksmann: “Trump Premio Nobel? Sarebbe come dare l’Oscar per la sceneggiatura a chi ha distrutto il copione”.
Un Paese diviso tra culto e rigetto
Ma nel Paese il suo messaggio fa presa. Secondo un sondaggio, il 46% degli elettori repubblicani crede che Trump “meriti un riconoscimento internazionale per la pace”. L’eco è immediata sui social e nei media conservatori. Fox News lo celebra come “l’uomo che ha fermato la Terza guerra mondiale”, mentre The Atlantic lo definisce “l’anti-Nobel per eccellenza”.
La pace secondo Trump
Se il Premio Nobel per la Pace fosse assegnato in base all’auto-proclamazione, Trump lo avrebbe già vinto più volte. Ma la storia, e Oslo, seguono regole diverse. Non basta dichiararsi pacificatore mentre si brandisce il protezionismo come clava, si giustificano golpisti e si minaccia mezzo pianeta.
Eppure, nella sua America divisa, questa ennesima sfida impossibile sembra perfettamente in linea con il personaggio. Un uomo che non cerca la pace: cerca l’applauso.