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Università, la nuova tassa che cambia il destino delle borse di studio

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Università, la nuova tassa che cambia il destino delle borse di studio

Dal 7 giugno è cambiato tutto. Le borse di ricerca post‑laurea non sono più esenti da Irpef. Ora valgono come reddito da lavoro dipendente. Una rivoluzione silenziosa che colpisce migliaia di giovani ricercatori. Una stretta che pesa come un macigno sulle prospettive di chi sceglie la strada dell’accademia.

Università, la nuova tassa che cambia il destino delle borse di studio

Un emendamento al decreto Pnrr‑Scuola ha riscritto il quadro. L’articolo 1‑bis, comma 4, ha cancellato un privilegio storico: l’esenzione fiscale prevista dalla legge 398 del 1989. Fino a primavera 2025 quelle borse erano considerate un sostegno netto, esentasse. Poi il taglio: da ora vanno dichiarate, tassate, inserite nel 730. Con tanto di ritenuta e aliquote ordinarie. Per lo Stato un’entrata aggiuntiva, per i ricercatori un taglio immediato alle risorse.

Il chiarimento tardivo

Nei primi giorni è esploso il caos. Università e borsisti si sono trovati senza certezze. Chi aveva già firmato un assegno prima del 7 giugno doveva pagare? La risposta è arrivata a fine luglio, con l’articolo 5‑bis del decreto 90. Una norma correttiva che stabilisce la non retroattività: chi ha ottenuto la borsa prima di giugno resta esente, anche se i soldi arrivano dopo. Una toppa necessaria, che però non basta. Restano dubbi sui casi di confine, su assegni deliberati a maggio ma erogati a luglio, su contratti in scadenza proprio nei giorni del cambio di regime.

Le eccezioni salvate
Non tutte le borse finiscono nel calderone fiscale. Restano esenti quelle regionali e provinciali destinate agli studenti universitari. Esenti anche le borse Erasmus e i programmi internazionali di mobilità. Salvi i dottorati, le specializzazioni in Medicina e Chirurgia, i post‑dottorati finanziati con fondi ministeriali, le borse per le vittime del terrorismo. Un elenco lungo, che lascia fuori solo una categoria ben precisa: i ricercatori post‑laurea, quelli che si muovono nel terreno più fragile, tra laurea e carriera accademica.

Gli esempi concreti
Il meccanismo è chiaro. Un borsista che dal 7 giugno in poi ottiene un assegno deve inserirlo nella dichiarazione dei redditi. Subisce una ritenuta Irpef, come se fosse uno stipendio. Può godere delle detrazioni da lavoro dipendente: fino a 1.880 euro per importi fino a 8 mila euro, con un minimo garantito di 690 euro. Sopra quella soglia le detrazioni restano, ma l’imposta sale. Risultato: meno soldi in tasca, minore potere d’acquisto, più incertezza.

La rottura con il passato
Per anni l’articolo 6 della legge 398/1989 aveva protetto le borse di studio. Una risoluzione dell’Agenzia delle Entrate del 2010 aveva ribadito il principio: esenzione totale. Ora la scelta politica di rompere con il passato. Per il ministero dell’Economia, le borse di ricerca non sono più sostegno, ma reddito. Un cambio di paradigma netto: chi riceve una borsa è trattato come un lavoratore dipendente. Il segnale è chiaro: meno assistenza, più responsabilizzazione fiscale.

Le reazioni negli atenei

Negli atenei la novità non è passata inosservata. Associazioni studentesche e gruppi di ricercatori parlano di “tassa sul futuro”. Secondo molti, la misura rischia di scoraggiare chi vorrebbe intraprendere un percorso accademico. “Si colpisce la fascia più fragile – dicono –. Chi non ha contratti stabili, chi vive di assegni temporanei, chi fatica a restare in Italia invece di andare all’estero”. Il rischio è di accelerare la fuga di cervelli, già in crescita.

La risposta del governo
Il Ministero dell’Università e della Ricerca ha provato a spegnere le polemiche. La linea è questa: l’equiparazione delle borse a reddito spinge gli atenei a preferire contratti veri e propri, più stabili e tutelanti. Non più assegni a termine senza contributi, ma rapporti di lavoro che garantiscano diritti previdenziali e coperture. Una scelta politica, insomma, che mira a ridisegnare il profilo del ricercatore. Ma il passaggio rischia di lasciare indietro migliaia di giovani, proprio nel momento più delicato della loro carriera.

Una partita ancora aperta
Il tema non si chiude qui. La stagione delle dichiarazioni dei redditi 2026 sarà il vero banco di prova. Università e Caf dovranno gestire migliaia di casi, con interpretazioni da chiarire e regole da consolidare. Intanto i ricercatori fanno i conti: assegni già bassi, spesso intorno ai 1.200 euro al mese, ridotti di qualche centinaio di euro dall’Irpef. Per qualcuno può fare la differenza tra restare in Italia o cercare altrove opportunità migliori.

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