Ci hanno detto per anni che erano i giovani a dover essere sorvegliati. I ragazzi con il telefonino sotto il banco, i profili falsi, le foto osé, i commenti crudeli. Ci siamo convinti che il pericolo stesse tutto lì, in quella generazione fragile, ancora senza filtri. Poi, un giorno, abbiamo guardato meglio. E ci siamo accorti che a perdere il controllo, a mostrare il peggio di sé, non erano loro.
E se il problema fossimo noi? Gli adulti sui social
Eravamo noi. Gli adulti. I genitori, i docenti, i colleghi, le professioniste. Quelli che si indignano davanti a un linguaggio scurrile, ma poi augurano la morte a qualcuno sotto un post politico. Quelli che dicono “i ragazzi non leggono più”, e poi condividono bufale, titoli strillati, teorie del complotto. Quelli che si riempiono la bocca di parole come rispetto, responsabilità, empatia. Ma che, dietro a uno schermo, diventano irriconoscibili.
I numeri parlano chiaro
C’è uno studio, dell’università di Melbourne, che mette i numeri davanti agli occhi. Il 94% degli adulti intervistati ha ammesso di aver bullizzato qualcuno online. Uno su due lo fa regolarmente. Non si tratta di troll o di criminali informatici. Sono uomini e donne comuni, spesso insospettabili. È un’amica che attacca un’altra madre su Facebook. È un insegnante che commenta con disprezzo il vestito di una studentessa. È un politico che insinua, deride, fomenta odio. La verità è che i social ci mostrano per quello che siamo quando nessuno ci guarda. O meglio, quando crediamo che nessuno ci giudichi. L’effetto dell’anonimato, o anche solo della distanza fisica, disattiva il filtro che normalmente usiamo nei rapporti umani. E in quell’assenza di sguardi – che pure sono miliardi – troviamo il coraggio di essere crudeli. Perché siamo stanchi. Perché abbiamo paura. Perché ci sentiamo invisibili. E allora gridiamo.
Una malinconia non elaborata
Dietro l’aggressività online degli adulti c’è una malinconia profonda. Una sensazione di essere stati messi da parte, superati, dimenticati. C’è una rabbia antica che cerca voce. Un bisogno disperato di sentirsi vivi, letti, reattivi. Anche a costo di diventare ingiusti. Anche a costo di fare del male. Ma tutto questo ha un prezzo. Un prezzo altissimo. Perché ogni volta che un adulto perde il controllo, ogni volta che un’insegnante insulta, un genitore attacca, un professionista deride, sta dicendo qualcosa a chi lo osserva. Sta dicendo: “È così che si sta al mondo”. E chi guarda, spesso, sono i nostri figli. I nostri studenti. Le persone che dovremmo proteggere.
Una responsabilità non delegabile
Non possiamo continuare a dare la colpa agli algoritmi, al sistema, alla tecnologia. È tempo di assumerci la responsabilità. Di guardare in faccia il mostro, che non sta dentro lo schermo. Sta dentro di noi. Il problema non sono i social. Siamo noi, quando smettiamo di pensare. Quando confondiamo l’urlo con la presenza. Quando ci dimentichiamo che anche lì, dietro ogni profilo, c’è una persona. Forse dovremmo cominciare a insegnare agli adulti quello che chiediamo ai ragazzi. Come si chiede scusa. Come si ascolta. Come si sta zitti. Come si lascia spazio. Come si rispetta. Sarebbe una rivoluzione piccola. Ma necessaria. Perché non c’è età per imparare a essere migliori.