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Il caso Cecchettin si chiude. Ma la lezione di Gino resta

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Il caso Cecchettin si chiude. Ma la lezione di Gino resta

Con la decisione definitiva della magistratura, si è chiuso ieri il percorso giudiziario legato alla morte di Giulia Cecchettin. La Procura generale presso la Corte d’Appello di Venezia ha rinunciato all’impugnazione contro la condanna all’ergastolo di Filippo Turetta, rendendo la sentenza definitiva.
Una storia giudiziaria che si chiude, ma una ferita che resta nel cuore del Paese.

Il caso Cecchettin si chiude. Ma la lezione di Gino resta

A parlare, con la stessa voce ferma che commosse l’Italia un anno fa, è il padre di Giulia, Gino Cecchettin, oggi presidente della Fondazione Giulia Cecchettin, nata per trasformare il dolore in impegno civile.

“Non esiste una giustizia capace di restituire ciò che è stato tolto – ha scritto in una nota – ma esiste la consapevolezza che la verità è stata riconosciuta e che le responsabilità sono state pienamente accertate.”

Una frase che pesa come una sentenza morale: la giustizia ha fatto il suo corso, ora inizia un altro cammino, quello della memoria attiva e della cultura del rispetto.

Il dolore che non chiede vendetta
“Verrebbe naturale – scrive ancora Cecchettin – continuare a pretendere giustizia, cercare ulteriori riconoscimenti della crudeltà o dello stalking. Ma continuare a combattere quando la guerra è finita è un atto sterile.”
Non è la resa di un padre, ma la sua rinascita.
Nel momento in cui il processo si chiude, lui apre uno spazio nuovo: quello della responsabilità collettiva.
La sua è una voce che rifiuta la retorica del rancore e sceglie la pace come forma di resistenza morale.

“La giustizia ha il compito di accertare i fatti, non di placare il dolore”, scrive ancora. “Quel compito spetta a noi: a chi resta, a chi decide di trasformare la sofferenza in consapevolezza e la memoria in responsabilità.”

In queste parole c’è tutta la distanza tra il clamore e la dignità, tra la cronaca e la civiltà.
Un padre che ha perso tutto e che pure sceglie di restare in piedi, perché il dolore non deve diventare catena, ma seme.

La Fondazione come risposta alla violenza

Dalla tragedia di Giulia è nata una Fondazione che porta il suo nome e la sua voce.
La Fondazione Giulia Cecchettin lavora nelle scuole e nelle aziende, promuove percorsi educativi contro la violenza di genere e il linguaggio sessista, costruisce reti con i centri antiviolenza, sostiene le donne che cercano di ricominciare.
Una comunità in movimento che combatte la violenza prima che esploda, nelle parole, nei gesti, nei silenzi.

Perché la battaglia contro i femminicidi – lo ripete Cecchettin – si vince solo con la cultura.
Con l’educazione al rispetto, con la consapevolezza di quanto le disuguaglianze di potere e le dinamiche di possesso siano ancora radicate.
“Giulia merita di essere ricordata non solo per la tragedia che l’ha colpita – scrive – ma per la dolcezza, l’intelligenza, la voglia di vivere e di amare in libertà.”

Un Paese che deve guardarsi allo specchio
Ogni tre giorni, in Italia, una donna viene uccisa da un uomo che diceva di amarla.
Un bollettino di guerra che non si ferma.
Eppure, nel silenzio composto di Gino Cecchettin c’è la denuncia più forte di tutte: quella contro una società che si commuove e poi dimentica, che piange ma non cambia.
La sua voce, mite ma incrollabile, costringe tutti – istituzioni, media, cittadini – a guardarsi allo specchio.

Perché il problema non è solo la violenza, ma la cultura che la permette.
Il linguaggio che minimizza, la gelosia che viene confusa con l’amore, la tolleranza verso il controllo e il possesso.
Da lì si parte per disinnescare l’odio prima che diventi crimine.

Il coraggio della mitezza

In un tempo di rabbia e di giustizialismi facili, Cecchettin ha scelto una via diversa: la mitezza come forza morale.
Ha trasformato la vendetta in testimonianza, la sofferenza in missione educativa.
Non si è rifugiato nella disperazione, ma nel senso.
“Il dolore non si cancella – dice – ma può diventare seme.”

E così Giulia non è più solo una vittima, ma un’eredità viva: il simbolo di un cambiamento possibile, se ciascuno accetta di fare la propria parte.
Padri che insegnano il rispetto, scuole che educano alla parità, istituzioni che non lasciano sole le donne che chiedono aiuto.
Questo è il terreno dove può germogliare quel seme.

Onorare Giulia guardando avanti
“Come padre – conclude Cecchettin – ho scelto di guardare avanti, perché l’unico modo per onorare Giulia è costruire, ogni giorno, qualcosa di buono in suo nome.”
È una frase che suona come un testamento civile.
Perché non basta condannare un assassino per sconfiggere la violenza: bisogna cambiare la cultura che l’ha resa possibile.

Gino Cecchettin ci ricorda che la giustizia, da sola, non basta; che la pace non è un punto di arrivo, ma un lavoro quotidiano.
E che il dolore, se accettato e condiviso, può diventare il fondamento di una società più giusta.

La sua voce non chiede odio, ma coscienza.
E forse è proprio questa la rivoluzione più profonda che un padre possa insegnare: che si può rispondere alla morte con la vita, e al male con il bene.
Giulia – con la sua libertà, con il suo sorriso – continua a vivere in quel cammino.
E nell’Italia che vuole davvero cambiare.

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