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Ilva, lo specchio delle fragilità italiane

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Ilva, lo specchio delle fragilità italiane

Poche storie raccontano l’Italia come quella dell’Ilva di Taranto. È un caso industriale e ambientale, ma anche una metafora di un Paese che descrive con precisione i propri problemi e tuttavia fatica a risolverli. Lo studio appena pubblicato da Assonime, anticipato da Il Foglio, lo definisce la “cartina di tornasole degli ismi italiani”: ambientalismo ideologico, populismo giudiziario, immobilismo politico, clientelismo locale e statalismo privo di strategia.

Ilva, lo specchio delle fragilità italiane

Nel 2012 i sequestri giudiziari degli impianti furono motivati dall’urgenza di ridurre le emissioni per tutelare la salute dei cittadini. L’obiettivo era legittimo, ma l’attuazione si rivelò caotica. Furono applicate prescrizioni tratte da normative europee non ancora recepite in Italia e si chiesero abbattimenti delle emissioni in tempi irrealistici, senza fornire alle imprese strumenti o risorse per adeguarsi.

Il risultato non fu un progresso ambientale proporzionato, ma un crollo produttivo che lo studio di Assonime definisce “un esproprio senza indennizzo”: la fabbrica restava formalmente al suo posto ma svuotata di prospettiva, credibilità e capacità di generare reddito.

Populismo giudiziario e conflitti istituzionali

Quella stagione inaugurò un decennio di decreti e sentenze che, invece di creare una cornice chiara, alimentarono uno scontro continuo: procure contro governi, giudici contro ministri, norme emergenziali contro verdetti.

In questa spirale, gli operai diventavano ostaggi, le bonifiche restavano bloccate e le famiglie di Taranto venivano agitate come scudi morali. È l’esempio emblematico di come il conflitto fra poteri dello Stato possa trasformare i nodi ambientali in paralisi industriale.

Immobilismo politico e transizione mancata

Mentre Germania e Svezia investivano miliardi nella siderurgia verde, con forni elettrici e impianti per il ferro ridotto diretto (Dri) integrati con le rinnovabili, l’Italia restava ferma.

Nei dodici anni tra sequestri, amministrazioni straordinarie e decreti, non si è definita una strategia né usati appieno i fondi europei, né attratti grandi investitori. Taranto avrebbe potuto diventare un laboratorio del green steel, simbolo di una transizione industriale moderna; è rimasta invece un impianto sospeso, con macchinari obsoleti e mercato in declino.

Il peso dei localismi

Al blocco politico si è aggiunto il clientelismo locale. Ogni progetto di riconversione, ogni tentativo di installare nuove infrastrutture, è diventato occasione di veti e scontri fra enti. Taranto è rimasta intrappolata fra interessi di corto respiro e paure immediate: la perdita dei posti di lavoro da un lato, i rischi per la salute dall’altro.

Il caso dimostra come in Italia le resistenze territoriali possano soffocare opere strategiche, trasformando ogni investimento in un percorso ad ostacoli, dominato da ricorsi e controricorsi.

Lo statalismo senza disegno

Lo Stato è tornato due volte nell’Ilva: nel 2013 con l’amministrazione straordinaria e nel 2021 con una nuova nazionalizzazione parziale. Ma entrambe le operazioni sono avvenute senza una visione industriale complessiva, senza decidere quale ruolo assegnare alla siderurgia italiana nella competizione globale.

Si è finito per socializzare le perdite senza trasformare l’impianto, lasciandolo a metà strada tra un passato ad alta intensità di carbone e un futuro di decarbonizzazione mai davvero progettato.

Una lezione nazionale

L’Ilva non è solo la storia di un’acciaieria. È la radiografia di un Paese che oscilla fra ambizioni ambientali, emergenze giudiziarie e assenza di strategia industriale. Il prezzo lo hanno pagato i lavoratori, con anni di incertezza, e le famiglie di Taranto, che hanno continuato a convivere con un ambiente ferito e un’economia debole.

La vicenda mostra che le transizioni ecologiche annunciate senza strumenti concreti rischiano di diventare freni allo sviluppo, e che il conflitto permanente fra poteri dello Stato e livelli di governo scoraggia investimenti e innovazione.

Oggi il dibattito sull’Ilva resta aperto. La sfida per il governo e per il sistema industriale è tradurre le risorse disponibili, anche europee, in un progetto credibile di acciaio verde, capace di coniugare competitività, lavoro e tutela ambientale e della salute

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