Mediobanca: "Volano i big della moda italiana (valore 90 miliardi), ma previsto un rallentamento nel 2023"

- di: Barbara Bizzarri
 
Secondo gli analisti dell'area studi Mediobanca, le maggiori aziende della moda in Italia, dopo due anni di spinta a doppia cifra, vedranno un rallentamento nella crescita dei ricavi nel 2023: è quanto desunto dai dati finanziari di 152 società della moda con sede in Italia, che mettono in luce un 2022 molto positivo con una crescita del giro d'affari nominale a livello aggregato del 20% (a 82 miliardi di euro, +21% sul 2019) e per il 2023 prevedono un ulteriore incremento del giro d'affari, ma a cifra singola, dell'8% che porterebbe l'aggregato delle maggiori aziende moda italiane a sfiorare i 90 miliardi, all'interno di uno scenario in rallentamento macroeconomico, in un contesto di tassi di interesse che vanno normalizzandosi verso l'alto e con le tensioni inflazionistiche in decelerazione.

Mediobanca: "Volano i big della moda italiana"

«Sul fronte delle vendite, si rilevano segnali di ripresa dei consumi e la riapertura della Cina si prefigura come un’opportunità e un importante driver della crescita», hanno tuttavia precisato gli esperti. Fattori positivi che seguono la scia della chiusura del 2022 che, nonostante le incertezze a livello globale e il quarto trimestre influenzato dalla recrudescenza del Covid in Far East, ha registrato valori molto incoraggianti. A trainare i ricavi dello scorso anno sono state le vendite all’estero, in accelerazione del 24% sul 2021. In progressione anche gli investimenti, che dovrebbero attestarsi a un +35%.
Un primo segnale di rimbalzo era stato registrato già nel 2021, che aveva visto i ricavi e gli investimenti salire oltre i livelli pre-crisi evidenziando una ripresa a 68,6 miliardi di euro (+32,7% sul 2020), superando dello 0,9% i livelli pre-pandemici. Il fatturato estero aveva contribuito con un rimbalzo più sostenuto (+35,7%) rispetto a quello nazionale (+28,7%). I produttori di alta gamma, nello specifico, hanno reagito con maggior forza rispetto a quelli mass-market, superando i livelli 2019 dell’1,1%, mentre i produttori della fascia più economica si sono trovati ancora al di sotto dei livelli pre-crisi (-3,6%). Le medie imprese a controllo italiano hanno segnato una ripresa più incisiva (+6,6% sul 2019) rispetto alle grandi (-1,7%) e a quelle a controllo estero (+3,3%), «a conferma della maggiore dinamicità e flessibilità di questa classe dimensionale, fiore all’occhiello del sistema industriale italiano».

Le prime venti aziende delle 152 considerate dallo studio hanno rappresentato, da sole, oltre la metà del fatturato aggregato. Al primo posto per ricavi si è confermato il gruppo Prada, che con 3,4 miliardi di euro ha preceduto Luxottica Group con 3,2 miliardi, consolidata dalla multinazionale EssilorLuxottica, e Calzedonia Holding con 2,5 miliardi. Seguono Moncler e Giorgio Armani con un giro d’affari di 2 miliardi ciascuno. La redditività ha segnalato una dinamica calante, con l’ebit margin sceso dal 12,1% del 2019 al 10,6% del 2021 dopo l’impatto dirompente della crisi, quando si era fermato al 4,5%. Il comparto pelli, cuoio e calzature ha riportato i margini più soddisfacenti (15,7%), seguito dall’occhialeria (12,3%), ma sono stati abbigliamento e gioielleria gli unici due settori produttivi ad aver migliorato i margini nel triennio, superando i livelli pre-crisi.

I prodotti di alta qualità hanno dunque continuato a premiare la redditività, con l’alto di gamma che ha chiuso il 2021 con un ebit margin del 10,8%, il 46% al di sopra dei valori dei produttori mass market (7,4%). Il podio per redditività ha visto al primo posto Fendi (32,8%), davanti a Renato Corti (29,5%) e Gingi (29,2%, principale marchio Elisabetta Franchi). In rimbalzo del 46,4% sul 2020 gli investimenti che superano dell’8,9% i livelli pre-crisi con 330 milioni in più. Fra le aziende produttive, nel comparto della gioielleria la crescita è stata anche più consistente (+189,1%). Sul fronte patrimoniale, le aziende della moda hanno rafforzato la propria struttura finanziaria, con i produttori di occhiali, abbigliamento e tessuti a distinguersi come i più capitalizzati. La liquidità è salita a livello aggregato dal 38,6% dei debiti finanziari nel 2019 al 55,3% nel 2021.

Da segnalare anche che la moda italiana è lontana dai riflettori della Borsa: solo il 17,5% del fatturato aggregato, pari a 12 miliardi di euro, è prodotto dalle undici società quotate del panel, mentre il restante 82,5%, ovvero 56,6 miliardi di euro, è generato dalle 141 non quotate. Dopo il rimbalzo del dicembre 2021 (+29,4% sul 2020), la capitalizzazione a fine 2022 chiude in flessione (-14,4% sul 2021), attestandosi a 37,6 miliardi di euro, pari al 5,3% del valore dell’industria della Borsa italiana, esclusa Prada. «Nel primo scorcio del 2023 si evidenzia una ripresa del 15,8% a metà febbraio», hanno precisato gli esperti di Mediobanca. «Al 15 febbraio 2023 il podio di Borsa è occupato da Prada, con 15,9 miliardi di euro, Moncler con 15,7 miliardi e Brunello Cucinelli con 5,5 miliardi di euro. Quarto posto per Salvatore Ferragamo con 3 miliardi, seguita da Tod’s con 1,2 miliardi. Tutte le altre società del panel registrano una capitalizzazione inferiore al miliardo di euro». Importante anche la presenza di gruppi stranieri nella moda italiana: su 152 aziende, 58 hanno una proprietà estera che controlla il 43,6% del fatturato aggregato (il 24,2% è francese). L'investitore straniero predilige l'alta gamma: l'87,4% del fatturato aggregato delle aziende a controllo estero è relativo alla fascia lusso (il 58,8% è francese). La proiezione internazionale è una delle caratteristiche più rappresentative delle società manifatturiere della moda: il 73,7% del fatturato complessivo proviene dall'estero, con in testa la gioielleria (80,3%), l'occhialeria (78,0%) e le pelli, cuoio e calzature (76,9%). I produttori di alta gamma (comparti abbigliamento, pelletteria e tessile) si collocano su livelli di export più elevati rispetto a quelli di fascia più economica (73,2% vs 58,2%), dimostrando maggiore capacità di presidiare i mercati esteri. Interessante notare che il 26,5% della forza lavoro delle maggiori aziende della moda ha mediamente meno di 30 anni; la più alta concentrazione di occupati giovani si rileva nelle imprese non quotate (40,1%) e in quelle più grandi (31,9%). La maggioranza dei dipendenti è assunta a tempo indeterminato (84,6%) e il ricorso al part-time è mediamente pari al 13,4% dei contratti. Dall’analisi della varietà di genere, emerge che la presenza femminile cala all’aumentare del livello di responsabilità: la quota di donne sul totale della forza lavoro è mediamente pari al69,5%, ma scende al 35,7% nei ruoli direttivi e al 22,6% a livello di board. La massima presenza femminile nei CdA è appannaggio dei Gruppi quotati (41,9%), seguita da quella delle medie imprese (33,0%). L’età media del board è pari a 57 anni (55 le donne, 58 gli uomini); si innalza con riferimento alle cariche di Amministratore Unico (65), Presidente (63) e Vice Presidente (62), mentre è più bassa nei Consiglieri Delegati (56) e nei Consiglieri semplici (55). La Generazione X è la fascia generazionale più rappresentata (48%), seguita dai Baby Boomers (38%).

Notevole la crescente attenzione a tutte le tematiche ESG, che emerge con forza dall’analisi dei bilanci di sostenibilità 2021, ed è stata accelerata dalla pandemia. Numeri alla mano, le aziende italiane della moda si impegnano con incisività per un futuro più sostenibile e per la salvaguardia dell’ambiente: mediamente diminuiscono le emissioni di CO2 (da 1.766 tonnellate di CO2 per un milione di fatturato nel 2020 a 1.462 nel 2021; -20,8%) e i rifiuti prodotti (da 2,9 tonnellate per un milione di fatturato nel 2020 a 2,4 nel 2021; -17,2%), mentre aumenta il ricorso alle fonti rinnovabili (dal 38,4% nel 2020 al 43,4% nel 2021) e la quota di rifiuti riciclati (dal 65,5% nel 2020 al 73,5% nel 2021).
Relativamente alla supply chain, dall’analisi dei bilanci di sostenibilità emerge che i fornitori dei maggiori players italiani della moda sono mediamente localizzati per il 56% in Italia, per il 30% in Asia, per l’11% nel resto dell’Europa, per il 2% in Africa e per il restante 1% nelle Americhe. Il ricorso a terzisti italiani è massimo per le aziende di alta gamma (80%) che adottano una strategia di maggiore qualità e prossimità, mentre le società vocate a prodotti di fascia più economica si rivolgono soprattutto a fornitori asiatici (58%). Rispetto al 2018, la mappa della supply chain appare oggi leggermente modificata a favore dei fornitori italiani che nel periodo 2018-2021 hanno aumentato il proprio peso specifico di due punti percentuali (dal 54% al 56%), a discapito soprattutto dei fornitori dell’Europa dell’Est e dell’Asia. La collaborazione con i terzisti pare quindi oggi privilegiare quelli tricolore, in coerenza con la tendenza a riportare in Italia produzioni che in passato erano state delocalizzate. Attualmente si stanno evidenziando due strategie prevalenti: da una parte, una spinta alla realizzazione di nuove fabbriche in Italia o l’ampliamento di quelle già esistenti, dall’altra una differente allocazione dei propri fornitori, rafforzando le collaborazioni con i terzisti chiave e più prossimi, anche attraverso joint venture o acquisizioni.

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