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L'Intervento / Landini: il Marchese del Grillo della Cgil

- di: Bruno Chiavazzo, giornalista e scrittore
 
L'Intervento / Landini: il Marchese del Grillo della Cgil
Il leader ignora la disfatta del referendum e si arrocca nel fortino della Cgil. Intanto la sinistra resta col cerino in mano.
È costata alle casse dello Stato italiano oltre 88 milioni di euro l'organizzazione e lo svolgimento del referendum dell’8 e 9 giugno scorso. Il 70% degli italiani non è andato a votare, ma per il capataz della Cgil è come se non fosse successo nulla. Alla domanda se, dopo la disfatta, si sarebbe dimesso, ha risposto con un laconico: “Non ci penso proprio!”. E tutto è finito lì. Insomma, chi ha avuto, ha avuto e chi ha dato, ha dato.
Gli spot televisivi, attori e comparse “de sinistra”, arruolati per la campagna elettorale, paginate sui giornali, interviste al leader maximo: tutto a maggior gloria di uno che, ai tempi di Luciano Lama o di Bruno Trentin alla Cgil, al massimo avrebbe fatto il delegato di fabbrica. Ma tant’è. Oggi la Cgil è una specie di Soviet di cui si conosce solo il capo. Sfido chiunque a citarmi almeno uno dei componenti della segreteria nazionale. Del dibattito interno, se c’è, non si sa nulla. I congressi, le assemblee, i comitati direttivi finiscono tutti allo stesso modo: Landini ha detto, Landini ha fatto. La democrazia interna, le componenti che garantivano il dibattito democratico, sono scomparse.
Ricordo il referendum sulla scala mobile, con comunisti e socialisti divisi sul voto, ma nessuno (e tantomeno Lama) ha mai avuto l’ardire di mettere in discussione la libertà per i socialisti, che pure erano in minoranza, di esercitare il diritto al dissenso e di organizzare assemblee e comizi, utilizzando i fondi e le risorse organizzative del sindacato.
C’è chi dice – ed io sono d’accordo, tutto sommato – che il referendum per Landini sia stato il tentativo di lanciare una “opa” su quello che resta della sinistra italiana. Ha coinvolto la Schlein, il duo Fratoianni-Bonelli e, addirittura, Conte e i pentastellati, in una battaglia che, in caso di vittoria, sarebbe stata solo sua. La sconfitta, come sempre, sarebbe stata scaricata su tutti gli altri per lo scarso impegno. E così è stato. Lui si è ritirato nel fortino di Corso d’Italia e chi s’è visto s’è visto.
La Schlein è rimasta col cerino in mano e la “spallata” che sperava di dare alla Meloni le ha procurato solo una tremenda slogatura, così come a Conte e agli altri post-sovietici. Ma la cosa più incredibile, e che dà il senso della pochezza politica della Schlein, è stata la giustificazione che ha tentato di dare alla débâcle referendaria. Secondo la Schlein, infatti, ai referendum ha votato più gente di quella che lo fece per mandare Meloni al governo. Una cosa ridicola, come paragonare la stoppa con la seta.
La Meloni, alle politiche, prese il 30% del 60% degli italiani che andarono a votare. Ai referendum non sono andati a votare i due terzi degli italiani. E quelli che hanno votato al referendum sono da ascrivere d’ufficio, secondo la Schlein, al Pd? È questa la logica? Capite perché la Meloni ha commentato, perfida: “Vogliono inchiodarmi a Palazzo Chigi per altri dieci anni!”

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