In Italia, meno di un cittadino su due partecipa agli screening gratuiti per la diagnosi precoce dei tumori. Secondo i dati elaborati dal Sole 24 Ore, su circa 16 milioni di italiani che nel 2023 hanno ricevuto un invito per effettuare controlli di prevenzione oncologica, solo 6,9 milioni hanno risposto. La media nazionale di adesione si attesta così al 44%, un dato allarmante che mostra una profonda disconnessione tra l’offerta di salute pubblica e il comportamento della popolazione. Il quadro peggiora drasticamente al Sud, dove i livelli di partecipazione in alcune regioni crollano al di sotto del 30%.
Screening oncologici, l’Italia si ferma a metà: solo il 44% aderisce ai test preventivi
I programmi di screening attivi nel Servizio sanitario nazionale mirano a individuare precocemente i tumori della mammella, del colon-retto e della cervice uterina, attraverso tre test chiave: mammografia biennale per le donne tra i 50 e i 69 anni, ricerca del sangue occulto nelle feci ogni due anni per uomini e donne tra i 50 e i 74, Pap test o HPV test per le donne dai 25 ai 64 anni. Tutti esami semplici, gratuiti e in grado di cambiare radicalmente il destino clinico dei pazienti. Eppure, il tasso di adesione resta sotto le soglie raccomandate dagli standard europei, compromettendo l’efficacia dei programmi.
La doppia barriera: accesso difficile e disinteresse diffuso
A ostacolare la piena riuscita dei piani di prevenzione è un doppio fattore: da un lato, le carenze organizzative di alcune Aziende Sanitarie, che faticano a garantire inviti tempestivi, sedi facilmente raggiungibili, esiti rapidi; dall’altro, una diffusa sottovalutazione culturale dell’importanza della prevenzione. In molte aree del Paese, il concetto di “screening” non è familiare, non è percepito come una priorità, e spesso è associato a un’inutile perdita di tempo o a una paura mal gestita. Una sfiducia, talvolta, aggravata dalla distanza fisica e simbolica dai luoghi della sanità pubblica.
Un Paese diviso anche davanti alla malattia
La distanza tra Nord e Sud, che attraversa da anni ogni statistica sulla salute in Italia, si fa ancora più evidente nei dati sulla prevenzione oncologica. Se in regioni come Emilia-Romagna e Toscana l’adesione supera il 60%, in Campania, Sicilia, Calabria i livelli si dimezzano. È la fotografia di un’Italia a due velocità anche sul diritto alla salute: una dove la prevenzione è routine, l’altra dove è ancora percepita come un lusso o una formalità. La medicina preventiva, che dovrebbe essere il primo presidio di giustizia sociale, si scontra con la realtà di un Paese dove nascere in una regione o in un’altra può fare la differenza tra diagnosi precoce e diagnosi tardiva.
Serve un cambio di passo: parole, prossimità, fiducia
Gli esperti insistono: per invertire la tendenza serve non solo migliorare l’organizzazione sanitaria, ma anche riscrivere il linguaggio della prevenzione. Comunicare meglio, essere presenti nei territori, avvicinare il servizio sanitario alle persone, anche con strumenti informali come farmacie, consultori, ambulatori mobili. È necessario ricostruire una fiducia, perché prevenire non è solo un atto medico, ma un gesto di responsabilità collettiva. Dove la medicina non arriva, deve intervenire la cultura, l’educazione, la comunità.
Non basta offrire un esame: bisogna renderlo desiderabile
I numeri raccontano con freddezza un’occasione mancata: 9 milioni di italiani che avrebbero potuto scoprire prima, trattare prima, guarire prima. In un’epoca in cui si parla di medicina personalizzata, di intelligenza artificiale e di terapie avanzate, resta centrale — e ancora largamente disatteso — un principio semplice: la prevenzione salva la vita. Ma perché funzioni, dev’essere credibile, vicina, concreta. E soprattutto, capita. Solo così si potrà passare dalla possibilità alla scelta, dalla statistica alla salute reale.