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I minori e il carcere: il paradosso della punizione che non redime

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
I minori e il carcere: il paradosso della punizione che non redime

Nelle celle strette di Casal del Marmo, i numeri parlano più delle parole: settanta giovani detenuti stipati in un istituto pensato per cinquasette. Non sono solo numeri, sono storie. Storie di ragazzi a cui il destino ha concesso poco e la società ancora meno. Alcuni sono figli di famiglie disastrate, altri di nessuno. Alcuni hanno commesso errori gravi, altri si sono trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ma tutti, senza distinzioni, condividono un destino comune: un sistema che, più che rieducarli, sembra volerne limitare l’esistenza a metri quadri di cemento.

I Minori e il Carcere: il paradosso della punizione che non redime

"Il carcere per i minori è la risposta più semplice a un problema complesso", spiega il sociologo Paolo Cottino, che studia da anni il rapporto tra devianza e istituzioni totali. "Non è un caso se nei Paesi in cui il ricorso alla detenzione è meno frequente la recidiva è più bassa. Significa che le misure alternative, quando ben gestite, funzionano".

In Norvegia e in Germania, ad esempio, la detenzione minorile è considerata l’extrema ratio. La priorità è l’educazione, l’inserimento sociale, la responsabilizzazione. Comunità di recupero, programmi di formazione, affiancamento psicologico. La convinzione, supportata dai dati, è che più un ragazzo resta dentro, più è probabile che torni dentro. Il carcere non spezza il circolo vizioso, lo alimenta.

In Italia, invece, il modello basato sulla rieducazione, che per anni aveva ridotto il numero di ragazzi in cella, si sta lentamente sgretolando. Antonio Padovani, psicologo forense, parla di un "effetto domino": più carcere, più disagio, più violenza. "Un giovane che entra in un istituto penale esce con più rabbia di quella con cui è entrato. La frustrazione si accumula, il senso di ingiustizia cresce, la fiducia negli adulti si azzera".

I dati confermano questa lettura. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica, il 67% dei minori che scontano pene detentive torna a delinquere entro cinque anni dalla scarcerazione. Una percentuale che si dimezza tra coloro che seguono percorsi alternativi. Non è difficile capire il perché. Il carcere crea stigma sociale, spezza le connessioni con il mondo esterno, riduce le opportunità di lavoro e studio.

La domanda, allora, è una sola: a cosa serve? Se il carcere minorile non redime, non corregge e non previene, perché continuiamo a riempirlo?

Una possibile risposta è nella mentalità punitiva che attraversa la società contemporanea. Più sicurezza, meno tolleranza. Più punizione, meno comprensione. Una narrazione che spesso dimentica che chi entra in un Istituto Penale Minorile non è un adulto in miniatura, ma un ragazzo ancora in costruzione.

"A quindici anni non si è definitivi", dice Carla Morelli, psicologa dello sviluppo. "Si è plastici, in evoluzione. Il carcere è un trauma, e i traumi lasciano cicatrici che si portano avanti per tutta la vita".

Nel frattempo, le celle si riempiono. E con loro, si svuotano le speranze di chi, forse, con un’altra possibilità, sarebbe potuto diventare qualcosa di diverso.

L’iniziativa per cambiare rotta
Non tutti, però, restano a guardare. Andrea Catarci, responsabile dell'Ufficio Giubileo delle Persone e Partecipazione di Roma Capitale, ha lanciato una proposta che punta a invertire la rotta: incentivare le pene alternative e ridurre progressivamente la detenzione minorile, con l'obiettivo finale di chiudere gli Istituti Penali Minorili.

L’idea non è nuova, ma è ambiziosa. Catarci propone di potenziare le misure di comunità, le attività di formazione professionale e i percorsi di reinserimento sociale, sul modello dei Paesi che hanno già ridotto drasticamente il ricorso al carcere per i minori. "Se un ragazzo può essere recuperato fuori da una cella, perché scegliere di chiuderlo dentro?" si chiede Catarci.

Ma il suo progetto va oltre l’utopia. Il primo passo è rivedere il sistema delle pene alternative, rendendolo più accessibile e strutturato. Oggi, molti ragazzi che potrebbero evitare il carcere finiscono dentro per l’assenza di percorsi chiari di rieducazione. Catarci vuole che la rete delle comunità, dei tutor, dei programmi di recupero diventi un’alternativa reale e percorribile.

In parallelo, punta a una riforma della giustizia minorile che riduca progressivamente l’uso della detenzione. Il modello è quello dei Paesi scandinavi, dove il carcere è solo per casi estremi e la risposta prevalente è sempre educativa.

Infine, la vera scommessa: trasformare gli Istituti Penali Minorili in centri di formazione e reinserimento, dove l’idea di detenzione venga sostituita da un percorso di crescita personale e sociale. Non un carcere camuffato, ma luoghi dove un ragazzo possa uscire con competenze, esperienze e prospettive.

"Ci vorranno anni", ammette Catarci. "Ma se non iniziamo ora, continueremo a condannare migliaia di ragazzi non solo per gli errori che hanno commesso, ma per quelli che lo Stato continua a commettere su di loro".

Non è una battaglia semplice. Ma è una battaglia necessaria. Perché il carcere, per chi ha quindici, sedici, diciassette anni, non è solo un muro di cemento. È un muro che separa ciò che sono da ciò che avrebbero potuto essere.

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