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L'arte dell'insulto nell'antichità: tra graffiti, riti e satire

- di: Giulia Caiola
 
L'arte dell'insulto nell'antichità: tra graffiti, riti e satire

L'insulto, lungi dall’essere una degenerazione moderna, ha radici profonde e articolate nella storia delle civiltà antiche. Più che semplici espressioni di rabbia o di volgarità, le ingiurie dell'antichità rappresentano una forma codificata di comunicazione sociale, religiosa e persino politica. Dai geroglifici egizi alle satire latine, passando per i graffiti greci e pompeiani, la parola offensiva diventa testimonianza di costume, potere e relazioni.

L'arte dell'insulto nell'antichità: tra graffiti, riti e satire

Nel mondo egizio, l’imprecazione non era solo una reazione emotiva ma assumeva valore magico e religioso. Le cosiddette “maledizioni funerarie” erano formule scolpite su stele e tombe, spesso dirette a chi avesse osato violare il luogo sacro. I testi invocavano punizioni divine precise: la cecità, la sterilità, l’oblio nell’aldilà. Alcune iscrizioni individuano con nettezza il trasgressore – “il malevolo, il ladro, lo sconosciuto” – evocando così una pratica linguistica che unisce insulto, rito e giustizia.

Grecia: la parresìa e il linguaggio osceno nei simposi e nel teatro
Il mondo greco, che pure fondò la democrazia e il pensiero razionale, non era alieno all’uso spregiudicato della parola volgare. Nei simposi, l’insulto era parte del gioco dialettico: scherno, allusioni sessuali, accuse di codardia o basse origini erano ammessi e spesso celebrati. Nel teatro comico – in particolare in Aristofane – la parresìa, cioè la libertà di parola, sfociava spesso in espressioni apertamente oscene. Gli dei, i politici, le donne emancipate venivano bersagliati con ironia aggressiva, specchio di una società in cui l’invettiva aveva un ruolo centrale nel dibattito pubblico.

Pompei: epigrafia quotidiana e oscenità muraria
Nessun luogo del mondo antico ha restituito una testimonianza più diretta e popolare dell’arte dell’insulto di Pompei. I graffiti pompeiani, incisi con strumenti improvvisati su muri di taverne, case private, bordelli e perfino latrine, costituiscono un archivio straordinario di offese, dichiarazioni amorose e dileggi. Alcuni testi riportano frasi inequivocabili: “Tutti salutano Primigenius, tranne il suo creditore”; “Successus ama Iris, ma Iris ama l’oste”; “Epaphra è un ladro e non sa fare l’amore”. L’uso del linguaggio volgare, qui, non è marginale, ma pienamente inserito nella vita urbana.

L’invettiva come strumento politico e sociale a Roma
Nella Roma repubblicana e imperiale, l’insulto assume anche una valenza istituzionale. Nei processi, nei comizi, nei pamphlet letterari, gli uomini pubblici venivano attaccati con ogni mezzo retorico. Le orationes di Cicerone sono celebri anche per la loro carica offensiva: “Catilina, quanto ancora abuserai della nostra pazienza?” non è solo un’accusa, è una pubblica umiliazione. Persio, Marziale, Giovenale faranno poi della satira una forma letteraria interamente basata sull’attacco, spesso personale, senza risparmiare né i costumi privati né le istituzioni.

Un’eredità viva della parola antica
L’insulto antico non è solo una forma di comunicazione marginale, ma un veicolo di potere, una strategia di affermazione e – in molti casi – una valvola culturale. Studi recenti mostrano come la volgarità, lungi dall’essere priva di regole, si sia evoluta secondo codici ben precisi. Analizzarli oggi significa non solo comprendere il senso dell’offesa nel passato, ma leggere in controluce le dinamiche più profonde della società antica: il rapporto tra cittadini e potere, tra uomo e divinità, tra individuo e collettività.

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