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Qual è la vera Italia, quella dei borghi spopolati o della corsa all’innovazione?

- di: Diego Minuti
 
Qual è la vera Italia, quella dei borghi spopolati o della corsa all’innovazione?
Nella prima pagina del libro dei sogni, che ciascuno di noi ha, pur se lo nasconde in fondo ai suoi pensieri, certo trova posto un Paese diverso e migliore, un’Italia che, facendo tesoro del suo passato (anche di quello che si vuole dimenticare, ma che deve sempre servire da lezione), riesca ad essere quello che i suoi abitanti sperano: una nazione ospitale, che sappia fare crescere i suoi ragazzi e i suoi giovani non nutrendoli di mere speranze, ma di piccole certezze sulle quali essi possano costruire il loro futuro.
Un’Italia che, nonostante il pessimismo cosmico lasciatoci in eredità da Giacomo Leopardi e dal quale non riusciamo mai a fare a meno, riesca a tirare fuori la testa dall’oceano dei problemi e torni a respirare a pieni polmoni l’aria che, trasudando soddisfazione, segna il raggiungimento dei traguardi.

Qual è la vera Italia, quella dei borghi spopolati o della corsa all’innovazione?

Ma, purtroppo, questa Italia è ancora lontana. Non un miraggio, ma ancora distante dalla realtà. Se si dà un’occhiata ai giornali, dai più importanti ed autorevoli a quelli locali (che restano uno specchio della società, dei suoi successi e delle sue delusioni) ci si accorge che spesso viviamo la realtà come se la guardassimo attraverso una lente deformante, che ci impedisce di vederne i contorni e quindi alimentando le interpretazioni. Ma poi ci fermiamo e ci guardiamo intorno per vedere cosa accade e quella stessa realtà, che pure alimentava i nostri sogni, sparisce.

Accanto ad un mondo fatto di fibra, cablaggi, intelligenza artificiale, start up, consigli d’amministrazione, Ceo e Cfo, ne corre uno, che non è parallelo, ma è quello del mondo reale. Dove, come accaduto in queste settimane, in un paesino un’intera comunità è entrata in crisi per la chiusura dell’unico negozio di alimentari, il solo al quale rivolgersi per le piccole, ma importanti esigenze quotidiane di una famiglia.
Questo paese si chiama Polino, in Umbria, ed ha appena 206 residenti, sessanta dei quali hanno più di 80 anni, con tutto quello che consegue, ad esempio in termini di mobilità. Dove, presumibilmente, tutti conoscono tutti e, se e quando si può, ci si dà una mano. Ma, se l’unico negozio dove potere acquistare un barattolo di pomodoro o un panetto di burro chiude, è un dramma vero, non come quelli che ci propinano le trasmissioni dei pomeriggi televisivi. Una porzione infinitesimale d’Italia che rischiava di annullarsi se il sindaco, Remigio Venanzi, non avesse deciso di acquistare un macchinone (grazie a dei fondi europei che evidentemente possono essere utilizzati senza cercare di specularci su) con il quale portare i suoi concittadini in un paese vicino a fare degli acquisti o da caricare di merce comprata come ai vecchi tempi, cercando di spuntare tutti i punti di una lista scritta su un foglio di quaderno, magari con grafia malferma e non sempre comprensibile.

Eppure una storia di solidarietà come questa, che dovrebbe essere normale, fa notizia perché ci dà la rappresentazione di un’ ‘’altra’’ Italia che vive l’emarginazione di un fenomeno - l’abbandono dei piccoli centri per raggiungere le città, con speranze di trovare un lavoro - che ci sta impoverendo tutti, come comunità nazionale.
E’ certo un problema di non facile soluzione, perché impone un profondo ripensamento dei canoni ai quali, negli ultimi tre decenni, abbiamo informato i progetti per rendere l’Italia competitiva, ma non accorgendoci di segnali che erano chiari e che avrebbero dovuto farci capire che il futuro del Paese non può prescindere dalla salvaguardia della nostra tradizione. Una tradizione nella quale i piccoli centri erano e sono non solo entità rurali, ma anche il normale serbatoio dei ricordi di una civiltà che abbiamo cercato di cancellare abbagliati dalla folgorazione della ricorsa al progresso da raggiungere a tutti i costi, magari seppellendo i retaggi che hanno consentito, all’Italia di oggi, di essere quella che è.

Si parla tanto di denatalità, di un Paese di vecchi, ma non per vecchi, di giovani che, atterriti da quel che c’è oltre i muri della loro casa, si rifiutano di uscirne. Forse guardare ai piccoli centri, ma con spirito costruttivo, non per farne fiori all’occhiello di effimere campagne di comunicazione, potrebbe essere un primo passo. Magari incentivando chi lavora da casa a sceglierne una in uno dei mille borghi, bellissimi, che costellano il territorio della nostra meravigliosa terra. Lo spopolamento dei paesini non è, però, solo un evento da fare analizzare dai demografi, dai sociologi, dagli antropologi, è qualcosa su cui agire in fretta, se abbiamo veramente a cuore il cuore vero della nostra società.

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