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L’Italia che cade in silenzio: tre operai morti in poche ore

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
L’Italia che cade in silenzio: tre operai morti in poche ore

Morire di lavoro. Morire nel buio di un capannone industriale, nel rumore assordante di una linea di montaggio, sull’asfalto rovente di un’autostrada. Senza gloria, senza dirette tv, senza funerali di Stato. È la strage silenziosa dell’Italia che produce, che si spezza e tace. Un’Italia inchiodata al margine, dove l’operaio è ancora quello che muore, come cinquant’anni fa, con il casco in testa e la schiena curva.

L’Italia che cade in silenzio: tre operai morti in poche ore, vittime invisibili di una guerra senza nome

Tre vite spezzate in meno di dodici ore. Tre uomini, tre storie, tre destini accomunati dall’invisibilità. L’ultimo è morto stamattina, sull’A1, nei pressi di Orvieto. Aveva 38 anni, lavorava sulla carreggiata nord dell’Autosole. Un mezzo pesante lo ha travolto e ucciso sul colpo. Era là per mettere in sicurezza un pezzo d’Italia, quell’Italia che ogni giorno attraversiamo senza sapere chi l’ha costruita.

Poche ore prima, a nord, in Friuli, un ragazzo di 22 anni è stato trafitto da una scheggia incandescente mentre manovrava una macchina per lo stampaggio di ingranaggi industriali. È successo a Maniago, in provincia di Pordenone. Il giovane si chiamava Andrea, veniva da Vajont. Il suo turno di notte è finito nel sangue. Nessuno gli aveva detto che anche una scheggia può essere una condanna a morte.

E ieri sera, nel cuore del Sud, a Sant’Antonio Abate, nel Napoletano, un operaio di 50 anni è rimasto incastrato nel nastro trasportatore di una ditta di smaltimento rifiuti. Il braccio, poi la testa. Una dinamica atroce, da cronaca industriale ottocentesca, che ci ricorda quanto poco sia cambiato nella sicurezza sul lavoro, nonostante i protocolli, i corsi, le circolari.

Tre morti che si sommano alle centinaia di caduti di quest’anno, alle migliaia degli ultimi decenni. Caduti in pace, ma in tempo di guerra. Perché questo è: una guerra a bassa intensità, non dichiarata, combattuta nei cantieri, nei magazzini, nei campi, nei tunnel dell’alta velocità.

Ogni volta si aprono inchieste. Ogni volta ci si interroga: mancava un dispositivo? Una barriera protettiva? Una segnaletica? Un controllo? E poi, come in un vecchio mantra: "La dinamica è al vaglio delle autorità competenti". Ma intanto i corpi si accumulano, le famiglie si piegano, e l’indignazione si scioglie nel solito silenzio.

Che cos’altro deve succedere perché il lavoro smetta di essere una roulette russa? Cosa ci raccontano queste morti che non vogliamo ascoltare? Forse che in Italia c’è una gerarchia del valore umano. Dove la pelle di chi lavora a mano nuda, con turni disumani e contratti interinali, vale meno. Vale meno del profitto, meno dell’appalto, meno del tempo.

Eppure sono loro a reggere il Paese. Sono loro che asfaltano le strade, che raccolgono i nostri rifiuti, che danno forma al metallo che usiamo, alla plastica che tocchiamo. Ma quando muoiono, muoiono soli.

Non si chiede retorica. Non serve un minuto di silenzio se poi si prosegue come nulla fosse. Si chiede giustizia. Prevenzione vera. Cultura della sicurezza. E memoria. Perché un Paese che non sa ricordare i nomi dei suoi morti sul lavoro, è un Paese che ha smesso di guardarsi allo specchio.

Intanto, i sindacati denunciano, i familiari piangono, e l’Italia continua a correre sopra le vite spezzate. Fino al prossimo turno, fino alla prossima sirena.

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