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Il caso di Legnano e la scia invisibile del femminicidio

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Il caso di Legnano e la scia invisibile del femminicidio
È stata trovata riversa nel proprio appartamento, colpita alla schiena con un coltello, una donna di 35 anni a Legnano. Era un’escort, viveva da sola in un bilocale in via Carlo Porta, nel centro cittadino. Nessun segno di effrazione, la porta chiusa, la scena domestica trasformata in teatro di morte. Una dinamica che ricorre: l’assassino che conosce la vittima, entra senza forzature, agisce con determinazione e lascia dietro di sé un corpo e un silenzio. Il gesto è rapido ma violento, probabilmente mosso da un impulso di possesso, rancore o annientamento. Un altro nome da scrivere nell’elenco dei femminicidi, che continua ad allungarsi senza che il Paese riesca davvero a fermarsi a guardarlo in faccia.

Il caso di Legnano e la scia invisibile del femminicidio

Quello che accade a Legnano non è un episodio isolato. È un tassello di un disegno più grande, che attraversa città grandi e paesi piccoli, Nord e Sud, fasce alte e marginalità. In Italia, una donna viene uccisa ogni tre giorni, e la maggior parte delle volte per mano di un uomo che conosceva, frequentava, amava o temeva. Parlare ancora di “emergenza” significa rifiutarsi di vedere la struttura: la violenza di genere è sistemica, affonda nelle relazioni sbilanciate, nella cultura patriarcale, nell’assenza di reti di protezione, nelle disuguaglianze economiche e giuridiche. Non esplode all’improvviso, si accumula. E quando colpisce, spesso era prevedibile.

La condizione delle donne ai margini

Nel caso di Legnano, a rendere la vicenda ancora più complessa è il fatto che la vittima fosse una sex worker. Una di quelle donne che la società guarda di sbieco, o non guarda affatto. Donne che vivono relazioni ambigue con chi le cerca e con chi le ignora. Donne vulnerabili, non per scelta, ma per assenza di tutele. Le associazioni che si occupano di diritti delle lavoratrici del sesso lo ripetono da anni: senza riconoscimento giuridico, senza accesso a strumenti di protezione, senza una rete che non giudichi, molte di loro restano invisibili fino al giorno in cui muoiono. È una vulnerabilità ulteriore, che si somma a quelle di tutte le altre.

L’assassinio come manifestazione del controllo

Colpire alla schiena non è solo un gesto vile, è simbolico. È un modo per aggredire chi si sta allontanando, chi prova a sottrarsi, chi forse ha detto “no”. La violenza femminicida non è mai casuale: è quasi sempre la reazione a una perdita di potere, o meglio, alla percezione di perderlo. L’uomo che uccide – compagno, ex, conoscente o cliente – non tollera la libertà dell’altra. La elimina. In una società che ancora fatica a concepire l’autonomia femminile come diritto pieno, il femminicidio diventa il gesto estremo di una cultura del controllo.

L’impotenza della risposta pubblica

Le reazioni istituzionali seguono il solito copione: condanna, cordoglio, promesse di giustizia. Ma le risposte restano deboli, disarticolate, inadeguate. Non bastano le leggi se non si traduce in prassi quotidiana la protezione reale. Non servono solo fondi, servono centri antiviolenza stabili, educazione sentimentale nelle scuole, formazione degli operatori di polizia e sanità. Servono parole nuove, e pratiche concrete. Serve riconoscere che non c’è differenza tra la morte di una escort a Legnano e quella di una madre a Siracusa o di una studentessa a Milano. Il filo che lega queste storie è il rifiuto del loro diritto di essere libere. Ed è questo che, come società, dobbiamo imparare a vedere.
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