Diego Armando Maradona non è mai stato solo un calciatore. È stato un’idea, un linguaggio, un’identità. Dall’erba polverosa di Villa Fiorito ai mondiali dell’86, da Napoli alle platee globali, il Pibe de Oro ha scritto pagine di calcio che hanno travalicato lo sport per diventare mitologia. Nessuno, forse, come lui ha incarnato lo spirito contraddittorio del genio: eccessivo, popolare, imprevedibile, amato senza condizioni. Anche dopo la sua morte, Maradona continua a vivere nei murales, nelle canzoni, nei cori degli stadi, nelle vene di chi ha fatto del calcio non solo una passione, ma una fede.
Maradona, l’eterno mito finito nel banco degli imputati: il processo alla morte del calcio
Eppure, anche le divinità terrene sono vulnerabili. Maradona è morto il 25 novembre 2020, all’età di sessant’anni, nella sua casa di Tigre, vicino Buenos Aires. Era reduce da un intervento per rimuovere un ematoma subdurale e si trovava in fase di recupero, affidato a un’équipe medica privata. Da quel giorno non si è mai spenta l’eco delle domande: poteva essere salvato? È stato curato con la dovuta attenzione? Perché, uno degli uomini più amati e celebri al mondo, è morto in solitudine e in condizioni cliniche discutibili? Oggi, a distanza di quasi cinque anni, quelle domande sono diventate materia giudiziaria.
Il processo: otto imputati, accuse pesanti
Davanti al tribunale di San Isidro si sta celebrando un processo che coinvolge otto persone tra medici, infermieri e psicologi. Tutti coloro che ebbero in cura Diego nelle ultime settimane di vita. L’accusa è gravissima: omicidio semplice con dolo eventuale. Secondo la Procura, Maradona non solo non fu adeguatamente assistito, ma venne abbandonato a sé stesso, in una casa che non era attrezzata, senza un monitoraggio costante, né interventi tempestivi. Il centro delle accuse è il neurochirurgo Leopoldo Luque, ma il coinvolgimento è collettivo: chi avrebbe dovuto proteggerlo, secondo l’accusa, ha ignorato i segnali del suo declino.
Dalma rompe il silenzio: “Papà si poteva salvare”
La testimonianza che ha scosso il procedimento è quella di Dalma Maradona, la figlia maggiore del campione. “La sua morte si sarebbe potuta evitare”, ha detto in aula. “Scopriamo ancora oggi dettagli agghiaccianti su come veniva trattato. I medici lo prendevano in giro, lo lasciavano solo”. Parole che hanno fatto il giro del mondo, portando nuovamente il dolore privato della famiglia in primo piano. Non solo l’abbandono clinico, ma anche quello umano, etico. Per Dalma, Diego è morto due volte: per l’arresto cardiaco e per l’indifferenza di chi avrebbe dovuto amarlo e curarlo.
Il simbolo tradito dal sistema
La morte di Maradona è diventata il simbolo di un sistema che a volte fagocita i suoi stessi idoli. Il mondo che lo ha celebrato, idolatrato, messo sui piedistalli, si è rivelato incapace di proteggerlo nel momento più fragile. Dopo una vita fatta di gloria e cadute, Maradona si è ritrovato solo. Il processo in corso in Argentina non è solo un’indagine penale, ma una riflessione collettiva: cosa accade quando la leggenda non ha più la forza di reggersi? E chi, tra manager, medici, familiari e assistenti, deve assumersi la responsabilità?
Un mito che resta, anche tra le ombre
Non sarà un’aula di tribunale a intaccare il ricordo di Diego Armando Maradona. Ma la verità sulla sua morte è un atto dovuto, non solo alla famiglia, ma anche a quella comunità planetaria che lo ha eletto a santo laico del calcio. Capire come è morto significa onorare come ha vissuto. E forse, per una volta, dare giustizia a un uomo che ha dato tutto al mondo, senza mai chiedere abbastanza per sé.