L’8 e 9 giugno gli elettori italiani saranno chiamati a votare anche su una proposta che tocca un tema cruciale dell’identità nazionale: l’acquisizione della cittadinanza. Uno dei quesiti referendari prevede la possibilità di ridurre da dieci a cinque gli anni di residenza continuativa richiesti per poter presentare domanda di cittadinanza italiana.
Cittadinanza e residenza: come funziona nel mondo, mentre l’Italia va al voto
Una proposta che, se approvata, cambierebbe radicalmente l’accesso alla cittadinanza per centinaia di migliaia di persone, aprendo un dibattito che va oltre la burocrazia per toccare la visione stessa dell’appartenenza. In attesa del voto, è utile guardare come si regolano altri Paesi del mondo.
Europa: tra aperture e controlli
Nel panorama europeo, la situazione è eterogenea. Paesi come il Portogallo e la Francia richiedono cinque anni di residenza per poter presentare domanda di cittadinanza, lo stesso periodo che il referendum italiano propone di adottare. In Germania si è recentemente deciso di abbassare il limite da otto a cinque anni, in una riforma orientata all’integrazione più rapida dei nuovi arrivati. In Belgio servono cinque anni, mentre nei Paesi Bassi sette. Il Regno Unito, ormai fuori dall’UE, mantiene un impianto autonomo con cinque anni più uno di attesa per la domanda. L’Italia, con i suoi dieci anni, resta tra i Paesi più restrittivi d’Europa, insieme alla Svizzera.
Nord America: il modello pragmatico
Negli Stati Uniti, la cittadinanza per naturalizzazione può essere richiesta dopo cinque anni di residenza permanente, tre per chi è sposato con un cittadino americano. In Canada, uno dei Paesi con le politiche più strutturate di accoglienza, il limite è tre anni di residenza effettiva su un periodo di cinque. La logica è inclusiva e si fonda sull’integrazione attraverso lavoro, istruzione, contributi fiscali. Il passaggio dalla residenza alla cittadinanza è considerato un traguardo di impegno civico, non una barriera amministrativa.
America Latina e Africa: esperienze variabili
In molti Paesi dell’America Latina i tempi di attesa sono sensibilmente più bassi: in Argentina bastano due anni, in Brasile quattro. L’accesso è legato più alla presenza stabile che a un lungo percorso di verifica. In diversi Paesi africani la normativa è invece più flessibile ma meno applicata, con forti variazioni tra Stato e Stato. In Sudafrica, ad esempio, si richiedono cinque anni di residenza permanente, ma le richieste sono soggette a valutazioni più discrezionali. In Marocco, il tempo minimo è cinque anni, ma la concessione resta una prerogativa del sovrano.
Asia e Oceania: cittadinanza come premio alla permanenza
In Australia, la cittadinanza può essere richiesta dopo quattro anni, di cui almeno uno come residente permanente. In Nuova Zelanda ne servono cinque. In Giappone il limite è di cinque anni di residenza ininterrotta, ma il processo è molto rigoroso e prevede anche requisiti di assimilazione culturale e linguistica. In Corea del Sud, sei anni. In India, addirittura dodici anni, mentre in Cina la naturalizzazione è un processo estremamente raro, con un quadro normativo che scoraggia l’accesso per gli stranieri.
Un’Italia chiamata a scegliere un modello
Il quesito referendario italiano non interviene sulla cittadinanza per nascita (ius soli), ma solo sulla cittadinanza per residenza. Ridurre da dieci a cinque gli anni necessari significherebbe allinearsi alla media dei Paesi europei e occidentali. Ma il voto di giugno sarà anche un test politico: su come l’Italia intende definire il proprio modello di integrazione, su come considera chi vive da anni nel Paese, lavora, paga le tasse, ma resta formalmente “straniero”. Non sarà un quesito neutro, e il suo esito potrà influenzare profondamente il dibattito sull’identità nazionale nei prossimi anni.