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Israele, sciopero e riservisti in piazza contro la guerra

- di: Jole Rosati
 
Israele, sciopero e riservisti in piazza contro la guerra
Israele: sciopero e riservisti in piazza contro la guerra a Gaza
Famiglie degli ostaggi, cittadini e militari uniti nelle strade: “Nessuno resti indietro”. Blocchi stradali e copertoni incendiati.

Una protesta che incendia le piazze

In Israele non è un giorno come gli altri: strade bloccate, copertoni in fiamme, bandiere issate tra le urla di un popolo che chiede uno stop alla guerra a Gaza. Lo sciopero generale convocato dal Forum delle famiglie degli ostaggi ha paralizzato il Paese, trasformando le principali città in teatri di protesta collettiva.

Le manifestazioni sono iniziate alle 6.29, ora simbolica perché coincide con l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, e hanno rapidamente assunto dimensioni imponenti. Da Gerusalemme a Tel Aviv, le arterie principali sono state occupate da cortei e sit-in, con migliaia di persone che hanno risposto all’appello: “Riportateci i nostri cari, basta guerra”, hanno scandito i manifestanti.

Centinaia di riservisti si uniscono ai manifestanti

La novità di questa ondata di proteste è la presenza di centinaia di riservisti dell’esercito israeliano, molti dei quali avevano combattuto proprio dopo i massacri di Hamas. In un documento diffuso ai media, i militari hanno dichiarato: “Chiediamo al governo e allo Stato maggiore di non espandere ulteriormente il conflitto reclutando decine di migliaia di riservisti e mettendo a rischio la vita degli ostaggi. Concludete un accordo per liberarli”, hanno scritto i riservisti. E hanno rilanciato un motto caro alla tradizione militare israeliana: “Nessuno deve essere lasciato indietro”, hanno aggiunto.

La loro presa di posizione ha rafforzato il carattere nazionale della protesta, mostrando come anche chi ha imbracciato le armi ora tema che la spirale militare sia diventata una trappola senza uscita.

Arresti e repressione

La polizia israeliana ha risposto con la forza. Tra 32 e 38 i manifestanti arrestati. A Gerusalemme gli idranti hanno disperso i sit-in, mentre a Tel Aviv l’autostrada principale è stata interrotta da blocchi improvvisati di sedie e copertoni incendiati.

La linea ufficiale è dura: “Libertà di protesta non significa incendiare o ostacolare la vita quotidiana delle persone”, ha dichiarato la polizia in una nota.

Herzog e la spaccatura politica

Alla Hostage Square di Tel Aviv, gremita fin dall’alba, si è presentato anche il presidente israeliano Isaac Herzog, che ha parlato alle famiglie: “L’intero popolo vuole la liberazione degli ostaggi. Non li dimentichiamo e faremo tutto per riportarli a casa. Chiedo alla comunità internazionale di smettere l’ipocrisia e di dire chiaramente a Hamas: niente accordo finché non ci sarà la liberazione”, ha detto Herzog.

Dall’altra parte, i ministri dell’ultradestra Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich hanno accusato i manifestanti di minare la sicurezza nazionale: “Sono gli stessi che hanno indebolito Israele prima del 7 ottobre e vogliono farlo di nuovo oggi”, hanno affermato Ben-Gvir e Smotrich.

Un Paese diviso tra guerra e pace

La partecipazione dei riservisti conferisce una nuova profondità alla mobilitazione. Non è più solo il grido delle famiglie disperate, ma anche la voce di chi ha combattuto sul campo e ora rifiuta l’idea di un conflitto senza fine.

Il premier Benjamin Netanyahu resta fermo: nessuna trattativa con Hamas senza la sua completa distruzione, nessun passo indietro sulla strategia militare.

Intanto, a Gaza, il bilancio umanitario peggiora di ora in ora: secondo l’ONU servirebbe un “flusso massiccio” di aiuti per fermare la catastrofe.

Un paese spaccato

La giornata del 17 agosto mostra un Israele spaccato. Da un lato la rabbia delle famiglie e dei cittadini che chiedono il ritorno degli ostaggi e la fine della guerra, sostenuti persino da centinaia di riservisti. Dall’altro, un governo che non intende mollare la presa e rilancia con l’idea di una guerra “totale”.

Il contrasto è ormai insanabile: e se persino i militari che hanno combattuto invocano un accordo, allora la domanda diventa inevitabile. Israele è davvero disposto a sacrificare tutto – vite, democrazia e consenso interno – pur di proseguire questa guerra senza fine?

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