Il vertice fra Donald Trump, oggi presidente in carica, e il premier israeliano Benjamin Netanyahu si colloca in una fase di forte ridefinizione del quadro mediorientale. Trump rivendica l’iniziativa come una “risposta positiva sia da Israele che dai Paesi arabi” al suo piano per Gaza. Ma dietro le dichiarazioni ottimistiche, la trattativa resta incerta e i rapporti di forza sono fluidi.
Trump e Netanyahu, asse fragile sul futuro di Gaza
Netanyahu, stretto fra le pressioni di Washington e quelle della destra nazionalista interna, ha scelto di tenere fuori dai colloqui i vertici militari e dell’intelligence, che giudicano rischiosa ogni concessione ai palestinesi. L’obiettivo del premier è mostrare di avere in mano il dossier e di poter decidere in prima persona eventuali aperture su Gaza, evitando di apparire condizionato dall’esercito e dai servizi. Una scelta che rivela la frattura fra la leadership politica e quella di sicurezza dello Stato ebraico.
Il riconoscimento palestinese in Europa cambia gli equilibri
A differenza del decennio passato, oggi la cornice diplomatica è mutata. Non solo perché Trump è tornato nello Studio Ovale e cerca di costruire un nuovo processo politico con la mediazione di Egitto e Giordania. A spostare gli equilibri contribuisce anche l’iniziativa di alcuni Paesi europei, fra cui Spagna e Francia, che hanno deciso di riconoscere ufficialmente lo Stato di Palestina. Un gesto che indebolisce l’isolamento politico di Hamas ma allo stesso tempo sfida la narrativa israeliana, creando nuove pressioni sull’alleato americano per includere anche l’Autorità nazionale palestinese nel negoziato.
Telefonata con Meloni, Europa divisa
Nelle ore precedenti l’incontro a New York, Trump ha parlato con la premier italiana Giorgia Meloni, che ha ribadito il sostegno di Roma a una soluzione “che garantisca sicurezza a Israele ma anche diritti e futuro ai palestinesi”. L’Italia si muove con prudenza, mentre l’Europa appare divisa: i Paesi che hanno riconosciuto la Palestina spingono per un negoziato politico più inclusivo, altri restano legati a un approccio più cauto e pragmatico verso Israele.
Trump cerca un successo internazionale, Netanyahu teme il prezzo interno
Per il presidente americano, il piano su Gaza è anche un banco di prova della sua leadership internazionale. Riuscire a favorire un cessate il fuoco stabile e un accordo politico rafforzerebbe la sua immagine di leader capace di riportare ordine in Medio Oriente. Ma Netanyahu, già contestato da una parte della società israeliana e indebolito dagli scandali interni, teme di pagare un prezzo politico davanti ai partner di coalizione della destra religiosa e ultranazionalista, ostili a qualunque concessione.
La questione del “giorno dopo” a Gaza
Anche ammesso che il negoziato decolli, resta aperta la questione centrale: chi governerà Gaza? Senza un’autorità palestinese legittimata sul terreno, senza un sistema di sicurezza condiviso e senza un piano economico credibile, ogni accordo rischia di restare sulla carta. L’idea di un’amministrazione temporanea congiunta, sotto egida araba e con garanzie americane, incontra scetticismo sia a Ramallah sia a Gerusalemme.
Una partita che ridisegna il Mediterraneo
La mossa di Trump di riallacciare i fili di un processo di pace che sembrava archiviato si intreccia con le dinamiche geopolitiche del Mediterraneo. Per Washington il controllo degli accessi a Gaza e la stabilizzazione della costa meridionale israeliana sono elementi strategici, anche per contenere l’influenza di Teheran e mantenere aperti i canali con le monarchie del Golfo. Ma la convergenza di interessi resta fragile: Israele non intende rinunciare al blocco navale, Hamas non vuole cedere il controllo della Striscia, e i Paesi arabi pretendono che la soluzione comprenda un riconoscimento pieno dei diritti palestinesi.
In questo contesto, l’incontro di New York è solo un primo passo. La stretta di mano tra Trump e Netanyahu non basta a sciogliere i nodi politici, militari e simbolici che paralizzano Gaza e ne fanno un epicentro di instabilità regionale.