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Cinque scialpinisti trovati morti sull’Adler: la montagna che non perdona

- di: Cristina Volpe Rinonapoli
 
Cinque scialpinisti trovati morti sull’Adler: la montagna che non perdona
Li hanno trovati a 4.000 metri, sul ghiacciaio dell’Adler, in Svizzera. Cinque scialpinisti, dispersi da giorni, sono stati rinvenuti privi di vita dopo una lunga e complessa operazione di soccorso. I corpi erano sepolti parzialmente dalla neve, in una zona impervia battuta dal vento e dalle valanghe. L’ipotesi principale, al momento, è che siano stati travolti da una massa nevosa improvvisa, probabilmente innescata da un distacco naturale, ma non si escludono altre cause come il gelo estremo o un errore nella rotta. Le vittime erano tutte esperte e ben equipaggiate, eppure questo non è bastato.

Cinque scialpinisti trovati morti sull’Adler: la montagna che non perdona

L’incidente rilancia una riflessione ricorrente ma mai risolta: fino a che punto la montagna può essere affrontata come territorio umano? Lo scialpinismo, soprattutto in zone ad alta quota come l’Adlerpass, comporta una convivenza costante con l’imprevedibilità. Chi lo pratica cerca la sfida, il silenzio, la bellezza del bianco assoluto. Ma spesso sottovaluta – o rimuove – il fatto che ogni passo è un patto fragile con la natura. Le previsioni meteo, i bollettini valanghe, le tracce GPS non garantiscono mai una sicurezza piena. Il margine di rischio è costitutivo. E quando succede l’irreparabile, la comunità si stringe, ma continua a interrogarsi.

Alpinismo e morte: una statistica che racconta un paradosso

Negli ultimi dieci anni, solo in Svizzera si contano oltre 400 morti in attività di scialpinismo o escursioni invernali. Numeri simili si registrano sulle Alpi italiane e francesi. Eppure, il richiamo di queste attività è in crescita. Più persone si avvicinano al fuoripista, alle esperienze “autentiche”, a un contatto radicale con la natura. I social alimentano il mito dell’alpinista solitario, dell’eroe che sfida le vette. Ma dietro quella narrazione si nasconde un dato implacabile: la montagna non fa sconti. Non basta l’esperienza, non basta la prudenza. L’elemento casuale, quando si è a 4.000 metri, può diventare fatale in pochi secondi.

La soglia tra esplorazione e imprudenza

Nel caso dell’Adler, nulla fa pensare a una spedizione sconsiderata. Gli scialpinisti erano esperti, avevano attrezzatura idonea, conoscevano il territorio. Ma questo è proprio ciò che interroga più profondamente: non si tratta di errori evidenti, ma di fatalità dentro un’attività che, per sua natura, implica accettare il rischio estremo. La linea tra esplorazione e imprudenza è sottile, e spesso viene tracciata solo a posteriori. Chi sopravvive racconta quanto fosse tutto sotto controllo. Chi muore non può più spiegare cosa è andato storto. È questo che rende la montagna un luogo sacro e pericoloso insieme: la sua indifferenza assoluta.

Il lutto e la memoria come parte del cammino


Le comunità alpine lo sanno: ogni stagione porta via qualcuno. La morte in montagna non è solo tragedia, è parte del paesaggio emotivo di chi vive e frequenta l’alta quota. I funerali degli scialpinisti trovati sull’Adler saranno sobri, silenziosi, come si addice a chi ha scelto di vivere – e morire – in ascolto della natura. Ma per chi resta, per chi prepara la prossima scalata, ogni cordata spezzata è anche un monito. Non per smettere di andare, ma per non dimenticare che, sulla neve, si cammina sempre tra la vita e il suo limite.


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