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Auto Ue, il grande ripensamento: cosa cambia davvero dal 2035

- di: Marta Giannoni
 
Auto Ue, il grande ripensamento: cosa cambia davvero dal 2035
Auto Ue, il grande ripensamento: cosa cambia davvero dal 2035
Dallo stop ai motori endotermici all’offensiva anti-Cina: dentro il pacchetto del 16 dicembre e il nuovo triangolo Roma-Berlino-Parigi sull’auto.

(Foto: parco auto).

Il calendario segna 16 dicembre come una data chiave per l’industria europea dell’auto. A Bruxelles la Commissione si prepara a svelare il pacchetto automotive che potrebbe riscrivere, in profondità, la traiettoria del Green Deal sulla mobilità: revisione dello stop ai nuovi veicoli benzina e diesel dal 2035, nuove regole per le flotte aziendali, stretta sugli import asiatici e tassazione del carbonio alle frontiere.

Sul dossier si è saldato un asse inedito: Italia, Germania e Francia, ognuna con esigenze diverse, ma unite dall’obiettivo di evitare che la transizione verde si trasformi in una gigantesca rottamazione del manifatturiero europeo. Sullo sfondo, una concorrenza cinese sempre più aggressiva e il timore che l’Ue diventi solo il mercato di sbocco degli altri.

Il pacchetto del 16 dicembre: perché è decisivo

Secondo le anticipazioni emerse a Bruxelles, il pacchetto del 16 dicembre avrà due cardini principali: revisione della disciplina sulle emissioni auto al 2035 e aggiornamento degli strumenti di difesa commerciale, a partire dal meccanismo di aggiustamento del carbonio alle frontiere (CBAM).

In origine la Commissione puntava a presentare il pacchetto il 10 dicembre, ma un draft di agenda ha certificato lo slittamento di una settimana, proprio per limare gli ultimi punti più sensibili: spazio per ibridi e motori a combustione alimentati da carburanti a basse emissioni, regole per rendere più “verdi” le flotte aziendali, tempi e perimetro dell’estensione del CBAM a nuovi prodotti.

Il commissario ai Trasporti Apostolos Tzitzikostas ha già annunciato che l’esecutivo Ue intende essere «aperto a tutte le tecnologie» nella revisione del quadro normativo, un chiaro segnale che il dogma “solo elettrico o niente” è stato accantonato in favore di un mix più flessibile, che includa e-fuel, biocarburanti avanzati e ibridi plug-in.

Stop 2035, la grande riscrittura: cosa potrebbe cambiare

Il regolamento approvato nel 2023 prevedeva una riduzione del 100% della CO₂ per le nuove auto e furgoni dal 2035, di fatto un bando alle immatricolazioni di veicoli con motore a combustione. In quell’accordo era già stata inserita una stretta “finestra” per le auto alimentate esclusivamente a e-fuel, ottenuta soprattutto su pressione tedesca.

Due anni dopo, la realtà industriale è cambiata. La domanda di auto elettriche pure cresce meno del previsto, le famiglie fanno i conti con prezzi elevati e infrastrutture di ricarica ancora insufficienti, mentre i costruttori europei subiscono l’attacco dei marchi cinesi, che offrono modelli elettrici a prezzi molto più bassi.

In questo contesto, sei Paesi – tra cui Italia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia – hanno scritto alla Commissione chiedendo di ammorbidire lo stop al 2035, consentendo la vendita anche dopo quella data di:

  • ibridi di nuova generazione;
  • veicoli alimentati con tecnologie esistenti o future in grado di contribuire alla riduzione delle emissioni;
  • auto che utilizzano carburanti rinnovabili e low-carbon.

L’obiettivo dichiarato è semplice: salvare posti di lavoro e capacità produttiva senza rinunciare al target climatico. La richiesta, però, apre una crepa politica sul Green Deal: quanto si può “flettere” l’obiettivo senza svuotarlo?

Roma-Berlino-Parigi: il triangolo dell’auto

Sul piano politico, uno dei punti più interessanti è la convergenza tra Italia, Germania e Francia. Da settimane il ministro italiano delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso insiste su una revisione «radicale ed efficace» dello stop 2035, in linea con la premier Giorgia Meloni: non solo aperture agli e-fuel, ma riconoscimento strutturale del ruolo di biofuel e ibrido, e soprattutto estensione del nuovo approccio anche ai veicoli commerciali e pesanti.

La linea italiana è stata portata a Bruxelles nel confronto con la ministra dell’Economia tedesca e il ministro francese dell’Industria, con l’obiettivo dichiarato di costruire un asse operativo capace di influenzare la proposta finale della Commissione.

Berlino spinge per salvare il proprio ecosistema dell’auto, già sotto pressione: in Germania l’occupazione nel settore automobilistico è scesa ai livelli più bassi da oltre un decennio, con decine di migliaia di posti di lavoro bruciati in pochi anni. Allo stesso tempo, la Francia chiede una strategia industriale europea che protegga l’auto – e con essa l’intera filiera – dall’onda degli arrivi asiatici.

Un settore che vale il 7% del Pil Ue (e milioni di posti di lavoro)

A spiegare la temperatura politica del dossier bastano alcuni numeri. La filiera automobilistica vale circa il 7% del Pil dell’Unione e garantisce oltre 13 milioni di posti di lavoro diretti e indiretti. È il più grande investitore privato in ricerca e sviluppo in Europa e trascina con sé siderurgia, chimica, plastica, elettronica, microchip, fino alla logistica e ai servizi digitali.

Se la transizione dovesse essere gestita male, il rischio non è solo una perdita temporanea di competitività, ma la trasformazione di intere regioni in “deserti industriali”. Già oggi i fornitori di componentistica stanno soffrendo: la transizione verso l’elettrico implica meno parti meccaniche, margini più stretti e investimenti elevati in nuove tecnologie.

Cina, dazi e “invasione anomala”: la nuova frontiera della difesa commerciale

La discussione sul pacchetto auto non si ferma alla tecnologia dei motori. Per l’Italia, il punto è anche fermare l’ondata di prodotti asiatici a basso costo che travolge non solo l’auto, ma anche fast fashion, tessile, plastica e beni di consumo.

Urso parla apertamente di “invasione anomala e sleale” e chiede all’Ue di alzare il muro dei dazi non solo sulle grandi forniture industriali, ma anche sui piccoli pacchi sotto i 150 euro che arrivano attraverso le piattaforme di e-commerce, spesso dalla Cina. Bruxelles ha già trovato un accordo politico per eliminare l’esenzione daziaria su questi invii e punta a far scattare la misura nel 2026; Roma incalza: «non possiamo aspettare il 2028», serve anticipare il più possibile.

In parallelo, la partita si gioca sulla scala macro: il presidente francese Emmanuel Macron ha appena messo sul tavolo la minaccia di dazi europei sui prodotti cinesi se Pechino non ridurrà il proprio enorme surplus commerciale con l’Ue, che ha toccato livelli record e continua ad allargarsi. Macron parla senza mezzi termini di “questione di vita o di morte per l’industria europea” e denuncia il rischio che l’Europa diventi il mercato di assorbimento degli eccessi produttivi cinesi, in particolare nei settori dell’auto e delle tecnologie verdi.

La tensione è già concreta: l’Ue ha introdotto dazi sui veicoli elettrici cinesi giudicati sovvenzionati, mentre Pechino ha risposto colpendo prodotti simbolo europei, come il cognac francese. L’auto è al centro di questo braccio di ferro, che il pacchetto del 16 dicembre cercherà di governare con strumenti più sofisticati.

CBAM e nuovi dazi: così Bruxelles prova a riequilibrare il campo

Uno di questi strumenti è il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM), il meccanismo di aggiustamento del carbonio alle frontiere che impone agli importatori di pagare un prezzo per la CO₂ incorporata in alcuni beni – oggi acciaio, cemento, fertilizzanti, alluminio, elettricità, idrogeno – equivalente a quello sostenuto dai produttori europei nel sistema ETS.

Il CBAM è nella fase transitoria e diventerà pienamente operativo nel 2026. Nel frattempo, Ue, Parlamento e Consiglio hanno già concordato un pacchetto di “semplificazione e rafforzamento”, con l’obiettivo di ridurre la burocrazia senza indebolire la copertura delle emissioni. Entro fine 2025 è attesa una revisione complessiva che dovrà valutare l’estensione del meccanismo a nuovi prodotti e, potenzialmente, a servizi e beni finiti.

Il draft di agenda visto a Bruxelles indica che la Commissione intende presentare, insieme al pacchetto auto, anche proposte per allargare il CBAM a ulteriori categorie di beni manifatturieri – si parla, tra l’altro, di elettrodomestici come lavatrici e altri prodotti finiti – e per chiudere le falle che consentono di aggirare il sistema spostando la produzione lungo la catena del valore.

Per l’Italia, CBAM e dazi sui piccoli pacchi sono tasselli della stessa strategia: difendere la base industriale europea da concorrenza considerata distorta, proteggendo allo stesso tempo i target climatici. L’equilibrio, però, è delicato: troppe barriere rischiano di innescare ritorsioni commerciali e di far salire i prezzi per consumatori e imprese europee.

Cosa vogliono davvero costruttori e flotte aziendali

Nel frattempo, dal fronte industriale è arrivata una richiesta molto chiara. Un gruppo di 67 aziende del settore auto, noleggio e leasing – tra cui grandi costruttori e colossi delle flotte – ha scritto alla Commissione chiedendo di evitare obiettivi obbligatori di elettrificazione per le flotte aziendali, preferendo incentivi e investimenti in infrastrutture di ricarica.

Per queste aziende, imporre quote rigide di veicoli elettrici nelle flotte rischia di essere controproducente: costi più alti, difficoltà operative nelle aree dove la rete di ricarica è ancora carente, possibile rallentamento del rinnovo del parco circolante (con il paradosso di tenere in strada più a lungo auto più inquinanti).

La stessa industria, tuttavia, non chiede un “liberi tutti”: molti costruttori spingono per schemi di neutralità tecnologica che misurino le emissioni sull’intero ciclo di vita del veicolo e riconoscano il contributo di ibrido, gas rinnovabile, biocarburanti ed e-fuel, mantenendo al tempo stesso un percorso coerente verso la neutralità climatica al 2050.

Rischi e opportunità per cittadini e lavoratori

Per i cittadini europei la posta in gioco è doppia. Da un lato, la velocità e la forma della transizione determineranno il costo e la scelta dell’auto nei prossimi dieci anni: se la rotta sarà troppo brusca, il rischio è un mercato spaccato tra chi potrà permettersi l’elettrico di ultima generazione e chi resterà bloccato su modelli vecchi e più inquinanti.

Dall’altro lato, il modo in cui l’Ue riscriverà le regole del gioco influenzerà la tenuta di milioni di posti di lavoro in stabilimenti, officine, concessionarie, trasporto e servizi collegati. Ogni flessibilità concessa sulla scadenza 2035 è vista dai sindacati come un cuscinetto per assorbire gli shock; dalle Ong ambientali come una potenziale retromarcia sul clima.

A livello globale, infine, l’Europa si trova schiacciata tra due modelli: quello americano, che usa dazi e incentivi massicci per attirare investimenti sul proprio territorio, e quello cinese, fondato su scala, sussidi e controllo delle catene del valore delle batterie. Il pacchetto del 16 dicembre sarà uno dei primi test per capire se l’Ue è in grado di trovare una via autonoma che difenda il clima senza sacrificare l’industria.

Cosa aspettarsi dal 16 dicembre

Al di là dei dettagli tecnici, ci sono alcuni segnali già piuttosto chiari:

  • lo stop 2035 resterà, ma con maggiore flessibilità per ibridi avanzati e carburanti a basse emissioni;
  • alle flotte aziendali verranno chiesti più veicoli a zero o basse emissioni, ma con meccanismi meno rigidi di quanto ipotizzato in origine;
  • il CBAM verrà progressivamente esteso e irrigidito per evitare scorciatoie e delocalizzazioni “di comodo”;
  • la stretta sui pacchi sotto i 150 euro e gli altri strumenti doganali segneranno un salto di qualità nella risposta europea all’e-commerce asiatico e all’ultra fast fashion;
  • l’asse Roma-Berlino-Parigi continuerà a pesare nel negoziato, ma dovrà fare i conti con i Paesi più rigoristi sul clima e con quelli dell’Est, che rivendicano margini per i propri sistemi produttivi.

Per l’auto europea, insomma, il pacchetto del 16 dicembre non è solo l’ennesima tappa legislativa: è il momento in cui l’Ue deve dimostrare se è capace di tenere insieme clima, lavoro e competitività. Il ripensamento dello stop 2035 e l’offensiva anti-Cina diranno molto di quale modello industriale e sociale l’Europa ha in mente per i prossimi vent’anni.

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