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Salari fermi, Paese immobile

- di: Vittorio Massi
 
Salari fermi, Paese immobile

Da trent’anni i salari italiani non crescono: un’anomalia che frena l’economia e alimenta le disuguaglianze.

(Foto: il professor Leonello Tronti)
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Una stagnazione lunga trent’anni
In Italia i salari reali sono fermi da oltre trent’anni. Secondo l’OCSE, tra il 1990 e il 2020 la retribuzione reale media dei lavoratori italiani è passata da essere superiore del 4,7% alla media OCSE a inferiore del 13,7%, con una perdita complessiva di 18,4 punti percentuali. Nel frattempo, la media OCSE ha registrato un incremento del 33,1%, con Germania e Francia che hanno visto aumenti rispettivamente del 33,4% e del 30,1%.
Leonello Tronti, economista del lavoro e docente all’Università Roma Tre, parla di una “questione salariale italiana” come di una vera anomalia nel panorama delle economie avanzate: “È un caso unico. L’Italia è l’unico Paese dell’area OCSE dove la produttività ha continuato a crescere, seppur lentamente, mentre i salari sono rimasti al palo. Non è una crisi congiunturale, ma una crisi di modello”.
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Il legame spezzato tra salari e produttività
Tradizionalmente, l’aumento della produttività del lavoro dovrebbe tradursi in un incremento dei salari. Ma in Italia questo legame si è interrotto. Tra il 1995 e il 2019 la produttività del lavoro è cresciuta dell’8%, ma i salari reali soltanto del 3,3%. Risultato: una perdita di quota salariale e un impoverimento progressivo del ceto medio.
“Il concetto stesso di quota salariale è sparito dal dibattito economico. Eppure era un parametro centrale negli anni ’80. Oggi paghiamo quell’oblio”, osserva Tronti.
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Trenta anni di scelte sbagliate
Tutto comincia nel 1992 con la disdetta della scala mobile. L’anno dopo, con l’accordo del luglio 1993, si introduce un modello duale di contrattazione: nazionale (per adeguare i salari all’inflazione attesa) e decentrata (per aumenti legati alla produttività aziendale o territoriale). Ma il secondo livello decolla solo in una minoranza di imprese, lasciando scoperti milioni di lavoratori.
“Quella scelta ha creato una forbice permanente. Abbiamo affidato gli aumenti veri alla contrattazione decentrata, ma l’80% delle imprese italiane non ha le condizioni per farla davvero. Risultato: salari inchiodati”, spiega Tronti.
In parallelo, la flessibilità introdotta ha aumentato i contratti atipici e il part-time involontario, rendendo ancora più fragile il legame tra impresa e lavoratore. Un esercito di precari esclusi dalla contrattazione e senza potere negoziale.
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Un Paese a doppia trazione
Il blocco dei salari ha avuto un impatto devastante sul mercato interno. Secondo l’Istat, la spesa delle famiglie italiane è cresciuta meno della metà rispetto alla media UE. “Abbiamo tenuto i salari fermi per competere all’estero, ma così abbiamo impoverito il mercato interno, che vale l’80% per le nostre imprese”, denuncia Tronti.
E infatti, mentre le grandi aziende esportatrici crescevano, le piccole e medie imprese italiane, orientate al mercato domestico, si indebolivano. Il divario si è allargato, polverizzando anche la rappresentanza imprenditoriale: Confindustria non rappresenta più la Fiat, né Luxottica, né i grandi gruppi alimentari. E anche sul versante sindacale, il patto sociale si è rotto.
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Un confronto europeo impietoso
Nel 2015 la Germania ha introdotto il salario minimo. Partiva da 8,50 euro l’ora, oggi è a 12. In Francia, il salario minimo è legato all’inflazione e rivalutato ogni anno. In Spagna, Pedro Sánchez lo ha aumentato del 47% in quattro anni.
In Italia, invece, il dibattito è bloccato. L’introduzione di un salario minimo legale viene osteggiata da chi teme che sostituisca la contrattazione collettiva. Ma secondo Tronti “è una falsa contrapposizione: un salario minimo fissato in modo intelligente può rafforzare la contrattazione, non indebolirla”.
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Cosa fare: la lezione di Tarantelli
Ezio Tarantelli, economista ucciso nel 1985 dalle BR, aveva proposto un modello di concertazione tra governo, imprese e sindacati. Una politica dei redditi capace di coordinare salari, prezzi e produttività. Tronti, che fu suo collaboratore, oggi ne rilancia l’attualità:
“L’idea di Tarantelli non era solo economica: era una visione democratica dello sviluppo. Coinvolgere le parti sociali in un progetto comune. Oggi, di fronte alla crisi della rappresentanza, è più attuale che mai”.
Serve un nuovo patto sociale, un’alleanza strategica per rimettere al centro il lavoro e ridare senso al salario. Perché come ammonisce Tronti: “La bassa crescita salariale non è un destino: è una scelta politica. Cambiarla è possibile, ma bisogna volerlo”.
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Cinque proposte concrete
1. Salario minimo legale indicizzato all'inflazione
2. Detassazione dei rinnovi contrattuali nazionali e di secondo livello
3. Premialità fiscale alle imprese che redistribuiscono utili ai lavoratori
4. Estensione obbligatoria dei contratti collettivi rappresentativi
5. Rilancio della concertazione con un'agenda sociale nazionale
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La questione salariale è la cartina tornasole delle fragilità italiane. E anche la chiave per superarle. In un Paese che ha sacrificato la crescita interna sull'altare della competitività, riportare al centro il salario vuol dire restituire dignità al lavoro, forza al mercato e coesione alla società. Non è solo economia: è politica, è visione, è futuro.


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