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Guerra commerciale Usa-Cina su cotone prodotto con lavoro forzato

- di: Brian Green
 
Guerra commerciale Usa-Cina su cotone prodotto con lavoro forzato
Uniqlo è un marchio giapponese di abbigliamento che, da qualche anno, ha acquistato una grande visibilità affidando la sua immagine a testimonial conosciutissimi, soprattutto nel mondo dello sport professionistico, come il tennis (tra i quali Nole Djokovic e Roger Federer), e dello spettacolo (per ultimi, gli attori Charlize Theron e Orlando Bloom).
Ma ora intorno ad un capo di abbigliamento della produzione di Uniqlo è scoppiato in caso commerciale, ma anche diplomatico. Da molto mesi, infatti, nel porto di Los Angeles è bloccato un grande carico di camicie di cotone del marchio Uniqlo perché, secondo le autorità locali, sono state fabbricate con materiale frutto della pratica del lavoro forzato nella regione cinese dello Xinjiang di cui sarebbero vittime uomini e donne della minoranza uigura.

Un'accusa che giustifica il divieto di importazione.
La US Customs and Border Protection (CBP) - il servizio doganale degli Stati Uniti - ha bloccato la spedizione delle camicie per una presunta violazione del divieto di importazione di merci a base di cotone prodotto nella regione autonoma uigura dello Xinjiang, dove Washington sospetta che Pechino stia usando minoranze etniche per il lavoro forzato.
Le materie prime delle camicie Uniqlo contengono presumibilmente cotone nella cui produzione si ritiene sia coinvolto lo Xinjiang Production and Construction Corps, legato al Partito comunista cinese.

Fast Retailing (l'holding giapponese proprietario anche del marchio Uniqlo), definendo deplorevole la decisione delle autorità americane, ha affermato di non avere ''riscontrato alcuna grave violazione dei diritti umani, incluso il lavoro forzato, nelle nostre catene di fornitura". L'holding ha quindi aggiunto: ''Usiamo cotone di cui abbiamo conferma che non sia stato utilizzato lavoro forzato durante il processo di produzione".

Zhao Lijian, vice capo dell'ufficio stampa del ministero degli Esteri cinese, ha criticato la mossa degli Stati Uniti, sostenendo che non esiste lavoro forzato nella regione dello Xinjiang, dove, ha spiegato, le persone sono libere di scegliere la propria occupazione. Ha definito il divieto di importazione come "un atto di bullismo" e ha esortato le società collegate ad opporsi al "comportamento scortese" di Washington.
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