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Alzheimer, l’intestino rivela la malattia prima che arrivi

- di: Marta Giannoni
 
Alzheimer, l’intestino rivela la malattia prima che arrivi
Alzheimer, scoperti biomarcatori nelle feci per una diagnosi precoce

ENEA scopre biomarcatori nelle feci: diagnosi precoce, zero invasività.
Brevettato un metodo rivoluzionario per anticipare l’Alzheimer con un test low cost.
Le promesse della biologia molecolare nella lotta alla demenza senile.

Il morbo silenzioso e l’urgenza della diagnosi precoce

L’Alzheimer non arriva all’improvviso. Per anni si insinua nel cervello in silenzio, distruggendo sinapsi e ricordi mentre ancora il paziente cammina, lavora, conversa. Per questo la diagnosi precoce è da tempo l’obiettivo più ambito della ricerca neurologica: anticipare l’irruzione del morbo, quando ancora si può rallentarne il corso. Ora un passo deciso in questa direzione arriva dall’ENEA, che ha brevettato un innovativo metodo di screening basato su biomarcatori fecali. Un’idea tanto audace quanto promettente: guardare all’intestino per intercettare ciò che succede nella mente.

Microbiota e Alzheimer, il filo invisibile che unisce pancia e cervello

A guidare lo studio è stato il Laboratorio di Biotecnologie RED dell’ENEA, nell’ambito del Piano Nazionale della Ricerca 2021–2027. I risultati si fondano su una base scientifica oggi sempre più solida: la cosiddetta “asse intestino-cervello”. In parole semplici, il nostro sistema digestivo è un laboratorio biochimico dove miliardi di microrganismi influenzano stati infiammatori, ormonali e perfino cognitivi. Una disbiosi intestinale – cioè uno squilibrio della flora batterica – è stata già collegata a numerose patologie neurodegenerative.

“Abbiamo ipotizzato – spiega Roberta Vitali, ricercatrice ENEA e responsabile del progetto – che alterazioni del microbiota possano riflettersi in modificazioni molecolari rilevabili nelle feci, come microRNA e specifiche proteine. E che queste molecole possano fungere da indicatori precoci della malattia di Alzheimer”. Una scommessa vinta: i ricercatori hanno effettivamente isolato un panel di biomarcatori che si modificano in fasi diverse della patologia, permettendo di seguirne l’evoluzione con un semplice campione fecale.

Dal brevetto al test: una sfida scientifica e industriale

Il brevetto riguarda dunque un insieme di microRNA e proteine identificati e validati nei diversi stadi della malattia, grazie a un modello sperimentale che riproduce le fasi dell’Alzheimer umano. Il passo successivo sarà trasformare questa scoperta in un test concreto: economico, non invasivo, ripetibile nel tempo. In prospettiva, questo tipo di analisi potrà affiancare (o in parte sostituire) gli esami neurologici più costosi e invasivi, come la risonanza magnetica o il prelievo di liquido cerebrospinale.

“Stiamo ponendo le basi – afferma ancora Vitali – per uno strumento diagnostico accessibile, che permetta di intervenire in modo tempestivo, di contenere i costi sanitari e, soprattutto, di migliorare la qualità della vita delle persone”. Il progetto è ancora in fase di trasferimento tecnologico, ma l’interesse di partner industriali e startup biotech è già concreto. E l’ENEA, che ha già depositato il brevetto, si muove ora verso lo sviluppo applicativo.

Una malattia in crescita esponenziale

I numeri parlano chiaro: l’Alzheimer è la forma più diffusa di demenza senile, colpisce circa il 5% degli over 60 in Italia e potrebbe raddoppiare entro il 2050. L’Italia, con il suo progressivo invecchiamento demografico, è tra i Paesi più esposti.

Ma oltre ai numeri, c’è il peso umano, sociale, familiare. Un paziente con Alzheimer precoce può restare lucido per anni, se seguito con terapie e percorsi adeguati. Da qui l’importanza di metodi diagnostici non solo accurati, ma anche sostenibili, capaci di arrivare nelle case, negli ambulatori di base, persino nelle farmacie.

Il futuro della diagnosi passa dalla biologia molecolare

Il merito della scoperta ENEA è duplice. Da un lato, individua un metodo non invasivo, compatibile con uno screening su larga scala. Dall’altro, mostra il potenziale della biologia molecolare applicata a matrici “insolite”, come le feci, per intercettare segnali biologici prima che il danno cerebrale diventi irreversibile.

In questo senso, l’approccio è perfettamente in linea con quanto sostenuto dalla comunità scientifica internazionale. Già nel 2022, uno studio pubblicato su Nature Aging evidenziava il legame diretto tra specifici ceppi batterici intestinali e la produzione di amiloide-beta, la proteina tossica che si accumula nel cervello degli Alzheimer. E una ricerca dell’Università di Hong Kong, apparsa nel 2024, aveva identificato segnali immunitari intestinali predittivi del declino cognitivo.

Una nuova era per la prevenzione neurodegenerativa

Non è la prima volta che il microbiota viene indagato per la sua connessione con il cervello, ma è la prima volta che un ente pubblico italiano porta a brevetto un pannello molecolare mirato alla diagnosi dell’Alzheimer partendo dalle feci. Un’innovazione che apre le porte a una nuova generazione di test predittivi, potenzialmente estendibili ad altre patologie neurodegenerative, come il Parkinson e la sclerosi laterale amiotrofica.

Serve ora un investimento strategico in ricerca traslazionale: dalle provette del laboratorio alla pratica clinica. L’ENEA ha fatto il primo passo. Tocca ora al sistema sanitario, alle imprese biotech e alla politica sanitaria nazionale decidere se dare a questa scoperta l’importanza che merita.

Dalla diagnosi alla dignità

L’Alzheimer è una condanna che toglie identità, autonomia, relazioni. Prevenirne l’esordio non è solo una questione di salute pubblica: è una battaglia di civiltà. Il metodo sviluppato dal team dell’ENEA ci ricorda che innovazione, intelligenza scientifica e multidisciplinarità possono aprire vie inattese. Anche da ciò che, per decenni, abbiamo ignorato. Anche da ciò che quotidianamente eliminiamo.

Perché a volte è proprio lì che il nostro corpo parla più forte. Basta saperlo ascoltare.

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