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Nel deserto spunta una Pompei perduta da 3.000 anni

- di: Marta Giannoni
 
Nel deserto spunta una Pompei perduta da 3.000 anni

Una città sepolta rivela rotte antiche e misteri mai svelati.

(Foto: una parte delle aree archeologiche in cui è emerso il nuovo sito).

Un insediamento sepolto sotto la sabbia
Nel cuore dell’arido deserto del Bayuda, in Sudan, tra le sabbie che si estendono tra il Nilo e la regione del Mar Rosso, un’équipe di archeologi ha riportato alla luce uno dei ritrovamenti più stupefacenti degli ultimi anni. Un’intera città dimenticata, databile a circa 3.000 anni fa, giaceva intatta sotto strati di sabbia e detriti. La scoperta - annunciata dall’Università di Varsavia e rilanciata da Heritage Daily e LiveScience – è già stata ribattezzata dai ricercatori “la Pompei africana” per il suo eccezionale stato di conservazione.
Il paragone non è affatto esagerato. Come Pompei fu sigillata dalle ceneri del Vesuvio, anche questo insediamento sembra esser stato abbandonato all’improvviso, forse in seguito a un evento climatico estremo o a un conflitto che ne ha cristallizzato la vita quotidiana. Strade, abitazioni, magazzini e spazi comuni sono stati ritrovati esattamente come furono lasciati: un’istantanea della vita nel cuore di un crocevia antichissimo tra Egitto, Levante e Africa sub-sahariana.
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Più di 1.200 siti scoperti: una mappa tutta da riscrivere
Il ritrovamento si inserisce in un progetto di ricognizione molto più ampio: la Bayuda Project Expedition, lanciata nel 2022 dall’Università di Varsavia in collaborazione con l’Autorità per le antichità sudanese. In totale, come confermato dal team polacco guidato da Mahmoud el-Tayeb e Mariusz Drzewiecki, sono stati censiti oltre 1.200 siti archeologici su un’area di circa 40.000 chilometri quadrati. Tuttavia, è uno solo, a nord del Wadi Abu Dom, ad aver attirato l’attenzione globale.
Secondo quanto dichiarato da Drzewiecki al sito HeritageDaily, “i materiali ceramici, i resti architettonici e la disposizione urbanistica di questo villaggio indicano una sofisticazione insospettabile. Non era un semplice posto di passaggio: era un centro organizzato, con attività economiche complesse e contatti internazionali”.
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Una Pompei africana dalle radici mediterranee
Fra i reperti rinvenuti spiccano utensili in rame e bronzo, stoviglie perfettamente conservate, monili e – fatto eccezionale – iscrizioni incise su ceramiche e tavolette in pietra. Secondo le prime analisi, le scritture potrebbero contenere elementi di una lingua semitica arcaica, simile al proto-aramaico. Questo elemento, se confermato, sarebbe esplosivo: testimonierebbe contatti attivi tra il Mediterraneo orientale e il cuore dell’Africa ben prima di quanto si sia finora ipotizzato.
Accanto a questo, vi è il ritrovamento di grandi quantità di natron, il prezioso sale minerale usato nell’antico Egitto per la conservazione dei corpi e la produzione di vetro. Finora si pensava che le miniere di natron fossero concentrate a nord del Cairo; la presenza in Sudan apre a scenari completamente nuovi su rotte commerciali e scambi materiali tra civiltà.
“Non è solo una scoperta locale”, afferma la professoressa Katarzyna Solarska, esperta di antichità africane. “Questa città cambia la narrazione sull’Africa del Nord-Est. Dimostra che le culture locali erano inserite in una rete vasta e dinamica, che si estendeva almeno fino al Levante”.
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Tracce di un cataclisma e di un esodo
Il cuore dell’enigma riguarda l’improvvisa fine della città. Tra le rovine, gli archeologi hanno individuato tre scheletri adulti in posizione rannicchiata, segno di una morte improvvisa, forse per crollo o per attacco. Nelle case rimaste in piedi si trovano ancora ciotole piene di grano, strumenti da lavoro appoggiati su piani in pietra, lucerne non spente. Tutti indizi che indicano un evento rapido e disastroso.
L’ipotesi prevalente, sostenuta dall’archeologo sudanese Ahmed al-Bashir, è che una combinazione di disidratazione delle falde acquifere e un’invasione nemica abbia determinato l’abbandono. “È possibile che un’intera civiltà sia stata cancellata nel giro di settimane”, ha dichiarato ad Al Jazeera English.
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Una finestra sulla vita quotidiana di 30 secoli fa
Ciò che rende straordinaria questa scoperta è la ricchezza della documentazione domestica. In molti ambienti sono stati rinvenuti affreschi geometrici, decorazioni a rilievo, pavimentazioni in pietra levigata, pozzi di raccolta dell’acqua e sistemi di ventilazione rudimentale. In alcune stanze, contenitori sigillati hanno restituito tracce di miele e di oli vegetali, ancora analizzabili in laboratorio.
È la microstoria a emergere con forza: la vita delle persone comuni, le tecniche agricole, le abitudini alimentari. Una quotidianità che raramente arriva fino a noi così intatta. In questo senso, il paragone con Pompei è perfettamente calzante.
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Le prossime fasi: una mappa del deserto da ridisegnare
Nei prossimi mesi si aprirà una seconda campagna di scavo, stavolta mirata a ricostruire l’impianto urbanistico e mappare con precisione l’estensione del sito. Si parla di almeno 4 ettari di superficie abitata, ma i rilievi a infrarossi suggeriscono la presenza di strutture ancora più grandi, forse un tempio o un centro amministrativo.
Parallelamente, partiranno studi incrociati con gli scavi egiziani e levantini, per valutare similitudini negli stili architettonici e nei materiali. Il British Museum, il Museo del Cairo e l’Università americana di Beirut hanno già chiesto di poter visionare i primi manufatti per una valutazione congiunta.
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Il deserto non è vuoto
Questa scoperta, benché appena iniziata, ha già un potere straordinario: quello di rovesciare l’idea del deserto come assenza. Per secoli, le sabbie del Bayuda hanno celato non solo rovine, ma connessioni. Quelle tra civiltà, commerci, culture, persone. Come un gigantesco mosaico riemerso, il “nuovo Pompei” ci obbliga a rivedere la nostra mappa mentale dell’antichità.
E soprattutto, ci ricorda una lezione antica: la storia non è fatta solo dai grandi imperi, ma anche dalle città invisibili che il vento può riscoprire.


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