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L’auto è ad un punto di svolta ma in che direzione?

- di: Gianluca Di Loreto Partner e responsabile italiano practice Automotive & Mobility, Bain & Company
 
L’auto è ad un punto di svolta ma in che direzione?

Per il settore dell’auto, l’anno appena concluso avrebbe dovuto segnare la definitiva consacrazione delle “motorizzazioni green”. In realtà, è accaduto l’opposto. In Italia, il mercato delle auto alla spina è rimasto sostanzialmente stabile, deludendo le attese (di alcuni) per una crescita significativa.

L’auto è ad un punto di svolta ma in che direzione?

Ora, lo sguardo si sposta sul 2025, indicato come il nuovo “anno di svolta”, complici le nuove soglie sulle emissioni di CO2 entrate in vigore a gennaio. Eppure, anche questo inizio d’anno mostra segnali tiepidi: il primo trimestre registra un mercato auto in calo, con i motori “green” ancora fermi al palo. A crescere, sì, sono le auto ibride, con numeri a doppia cifra. Ma la transizione ecologica resta un’opera incompiuta, una promessa che continua a rinviarsi. Il “vecchio”, ciò che già avevamo e che in fondo funzionava bene, non solo non è scomparso, ma continua a vendere: lo fa sotto forma di mild hybrid e soprattutto attraverso il mercato dell’usato.
Cosa scegliere, allora: la novità o la tradizione? Fino a che punto un’innovazione mancata può davvero essere preferibile a una tradizione di successo?

La risposta a questa domanda passa attraverso un’analisi dell’evoluzione del mercato automobilistico a livello globale. Oggi, per comprendere davvero la portata di certi fenomeni, non basta più osservare un singolo Costruttore o una sola Regione. La partita si gioca su uno scacchiere globale, e non esclude nessuno. L’analisi storica offre un primo segnale d’allarme: secondo le stime, entro il 2030 le vendite mondiali di auto si attesteranno tra i 95 e i 97 milioni di unità, un dato sorprendentemente vicino ai 94 milioni del 2017. In altre parole, più di un decennio senza crescita reale. Un contrasto netto rispetto al decennio precedente (2007-2017), quando si era passati da 70 a ben 94 milioni di veicoli venduti.
Il mercato è saturo — e continuerà ad esserlo. Ogni volume aggiuntivo generato dalle nuove geografie (Cina, India, ecc.) andrà inevitabilmente a scapito delle vendite nelle economie mature (Europa, Nord America, Giappone). È un dato impossibile da ignorare, e pressoché inutile da contrastare.

Ma l’analisi dei dati di vendita del 2024, suddivisi per regione geografica, mette in luce un altro elemento chiave: il cambio di rotta della politica cinese nei confronti delle auto straniere. In sostanza, la Cina ha deciso di puntare sulle proprie forze, limitando sempre più lo spazio per i Costruttori esteri che negli ultimi anni avevano prosperato nel mercato locale.

Questo è un primo dato, evidente, che aiuta a spiegare molte delle difficoltà attuali delle Case automobilistiche occidentali. Il calo di volumi e di marginalità è infatti dovuto anche - ma non solo - al ridimensionamento del mercato cinese, che per oltre un decennio era stato una vera e propria “terra promessa” per molti operatori globali.
Basti pensare che i marchi cinesi passeranno dal 42% del totale vendite nel 2020 al 73% previsto per il 2030. Di conseguenza, i produttori stranieri scenderanno dal 58% a un preoccupante 27%. E non è tutto: secondo le stime di S&P Mobility, le Case cinesi arriveranno a detenere l’80% del mercato delle auto NEV (New Energy Vehicles).

Questa è la media complessiva. Ma il quadro diventa ancora più chiaro se si analizzano i singoli OEM. Le Case europee - e in particolare quelle tedesche - realizzano in Cina almeno un terzo, se non quasi la metà, delle loro vendite globali. È evidente che un rallentamento in quel mercato non può non avere ripercussioni sui costi e sulla sostenibilità industriale in Europa.
Discorso diverso per i Costruttori americani, che hanno una presenza molto più limitata in Cina (meno del 10%) e un’esposizione ridotta anche in Europa.
Visto da questa prospettiva, il tema dei dazi - oggi tornato di stretta attualità - acquista una nuova chiarezza. Il “fattore Cina” non sta solo riscrivendo la geografia dell’auto: ne sta cambiando profondamente anche l’economia.

Un cambiamento radicale, che non può non riflettersi sui bilanci delle Case automobilistiche occidentali. E le conseguenze sono già visibili. Nel terzo trimestre del 2024, per la prima volta dopo la crisi del Covid, il margine operativo dei Costruttori è sceso al di sotto di quello dei loro fornitori. Una sorta di “normalizzazione” del mercato, dopo una fase eccezionale in cui la pandemia e la carenza di semiconduttori avevano spinto i prezzi alle stelle, generando profitti record per gli OEM. Ora, però, il vento è cambiato. L’aria di tempesta soffia contro i Costruttori, che nel Q3 2024 hanno registrato un EBIT medio del 6,2%, contro il 7,0% dei componentisti. Un segnale chiaro che qualcosa si è incrinato nel modello di redditività dell’auto, e che l’equilibrio della filiera sta cambiando.

In Italia il mercato è fermo, anzi arretra. La nuova normativa sulle auto aziendali è arrivata a complicare ulteriormente un contesto già incerto. Il cliente, disorientato anche dall’andamento dei prezzi, preferisce attendere tempi migliori. Nel frattempo, a febbraio il mercato registra un calo del 6,6% nelle vendite da inizio anno, con una flessione significativa tra i privati (-7,4%) e nei segmenti più piccoli, dove il prezzo incide maggiormente: -8% per le berline di segmento A, -24% per quelle di segmento B. Nemmeno l’Europa dà segnali incoraggianti: a gennaio, il mercato ha chiuso con un -2,6% rispetto allo stesso mese del 2024. Il clima resta quindi difensivo, e un altro indicatore interessante è quello delle operazioni di M&A. A livello globale, nel 2024 si è registrato un crollo nelle attività di fusione e acquisizione, che di norma riflettono la volontà delle aziende di investire in modo deciso su una direzione strategica. Il valore complessivo dei deal nel periodo Q1-Q3 si è fermato a 4 miliardi di dollari, contro i 22 miliardi del 2023 e i 44 del 2022. Un calo coerente con altri momenti di incertezza, ma che questa volta ha toccato un minimo storico. A fronte di ciò, aumentano in modo significativo le partnership, segno che gli operatori vogliono comunque muoversi, ma con prudenza. Senza una chiara visione sul futuro del settore, preferiscono impegnarsi in forma più flessibile: alleanze strategiche più che acquisizioni vere e proprie. Come dire: si mette un piede nella porta, ma si resta fuori in attesa. Una convivenza più che un matrimonio. Figlia dei tempi che stiamo vivendo.

L’Italia, in controtendenza rispetto al panorama globale, segna un’inversione di rotta: nel 2024 le operazioni di M&A sono aumentate. Dai 30 deal registrati nel 2023 si è passati a 35, concentrati principalmente nei settori della meccanica e della distribuzione (dealer). Il primo rappresenta da sempre un’eccellenza del nostro Paese, mentre il secondo è storicamente caratterizzato da una forte frammentazione e da un “nanismo” imprenditoriale diffuso.
Questo aumento va letto come un segnale chiaro: gli imprenditori italiani stanno comprendendo che, in un contesto così complesso, restare piccoli non è più sostenibile. Unire le forze, creare sinergie, fare scala è oggi l’unica strada per affrontare sfide sempre più impegnative.
L’Italia, rispetto ad altri Paesi, parte da una situazione di maggiore frammentazione, e proprio per questo il trend è da considerarsi positivo. L’imprenditoria automotive italiana ha colto la necessità di cambiare passo, recuperando terreno sia nella meccanica sia nella distribuzione, dove il consolidamento del mondo dei dealer è in corso ormai da tempo.
Un ulteriore elemento incoraggiante riguarda la natura degli acquirenti: nella maggior parte dei casi si tratta di aziende italiane. Un cambio di scenario rispetto al passato, quando erano spesso soggetti esteri a investire sul nostro territorio.

Nei diversi Paesi europei, così come nelle istituzioni comunitarie, si moltiplicano i tentativi di elaborare un piano di rilancio per il settore automobilistico, un tempo simbolo di eccellenza e oggi messo alle corde. L’intento è lodevole, e va perseguito con determinazione. Ma siamo davvero sicuri che la strada intrapresa sia quella giusta?
Ha senso stabilire il cosa (la decarbonizzazione), il come (l’elettrificazione forzata) e il quando (entro il 2035) della transizione energetica, e poi cercare soluzioni per rimediare agli squilibri generati da quello stesso approccio? Forse è il momento di cambiare prospettiva.
Più che continuare a chiedersi cosa fare, l’Europa dovrebbe interrogarsi su chi debba farlo. E la risposta è una sola: gli imprenditori, ovvero le Case automobilistiche e le aziende della componentistica. Nessuno è più titolato di loro a guidare questa trasformazione.

Ma c’è una condizione necessaria: occorre lasciarli liberi di agire, e quindi anche di sbagliare. Senza vincoli rigidi, senza scadenze, senza multe, penali o reprimende. Le Istituzioni devono indicare l’obiettivo, come è giusto che sia. Ma spetta all’industria scegliere la strada migliore per raggiungerlo, nell’interesse proprio e dei consumatori.

E che vinca il migliore. In fondo, se si lascia libertà d’azione all’imprenditoria e libertà di scelta al consumatore, si evitano le forzature innaturali. Quelle che finiscono per pesare sulle finanze pubbliche (con incentivi a pioggia), su quelle private (con bilanci in sofferenza) e sull’occupazione (con la chiusura degli stabilimenti).
Si fissino regole di concorrenza corrette e trasparenti. Al “come” ci penserà l’industria. E l’Italia, come ha già dimostrato in passato, potrà tornare a primeggiare e a essere un punto di riferimento dell’automotive a livello globale.

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